Uniti si può. Ci si salva solo tutti insieme.

La guida di uno Stato necessita di attenzione alle questioni immediate, senza però perdere di vista i problemi strutturali e gli obiettivi a medio e a lungo termine. Se nell’immediato può apparire utile fissare particolari condizioni di prontezza operativa quale può essere lo “stato di emergenza” deliberato dal Consiglio dei Ministri in questi giorni, viene da chiedersi cosa stiano facendo i governi occidentali ed il nostro in ispecie, per contrastare la pandemia, la sua diffusione e i suoi effetti.

Ci troviamo nuovamente a fronteggiare un aumento dei contagi, nonostante tantissimi italiani si siano già vaccinati con due dosi e si vada verso la vaccinazione dei bambini. Abbiamo saputo nel tempo che i vaccini hanno l’effetto di ridurre i sintomi del COVID ma non proteggono dal contagio né il vaccinato né le persone che vengono a contatto con lui.

Pare (ma non si conoscono con precisione i dati) che il vaccinato contagi meno. E’ invece evidente che i vaccinati finiscano in ospedale più raramente e tanto più raramente finiscano in terapia intensiva. Comunque (anche a causa dei non vaccinati) gli ospedali sono molto impegnati col Covid e le varianti continuano a prodursi. Parliamo dei problemi connessi al coronavirus e per un attimo mettiamo tra parentesi i NOvax. Non sono loro l’unica criticità.

Per esempio: il covid si diffonde di più coi contatti ravvicinati, perciò le discoteche sono state tanto limitate e i raduni non indispensabili, come gli spettacoli sono stati prima bloccati e ora limitati. Le scuole hanno dovuto funzionare in DaD, privando i ragazzi della socializzazione preziosa per la loro crescita.

Possiamo chiedere cosa è stato fatto per i trasporti pubblici locali? Negli autobus e in metro ci si assembra un bel po’. Limitare il riempimento dei mezzi poteva essere una immediata risposta all’emergenza, ma non poteva essere una risposta definitiva e, infatti, oggi dopo quasi due anni non ha retto. Autobus metro e tram sono di nuovo pieni. Quanti nuovi mezzi sono stati acquistati? Quanti conduttori sono stati assunti? Quali soluzioni sono state trovate per ridurre le necessità di spostamento delle persone? È noto che il Ministero della funzione pubblica non ha lavorato per rendere efficiente il lavoro da casa ed ha preferito spingere per eliminare questa opzione, che riduceva molto la mobilità quotidiana delle persone.

Le scuole come prima della pandemia, hanno classi troppo numerose e locali inadeguati per numero e manutenzione e qualità originaria e la scuola è sicuramente fondamentale per qualsiasi ripartenza, compresa quella dopo la pandemia.

Gli ospedali sono pieni perché i malati di covid sono tanti e perché tanti posti letto erano stati eliminati negli anni. Erano stati assunti meno medici e meno infermieri. I poliambulatori pubblici erano stati chiusi e sostituiti da poliambulatori privati, molti dei quali non accessibili a tutti. Le facoltà di medicina accessibili a numero chiuso e solo previo test di cultura generale. Cosa è cambiato delle precedenti scelte in questi anni di pandemia? Il personale medico, sanitario, infermieristico e amministrativo, impiegato nelle campagne anti pandemia è stato assunto con contratti precari, vero?

Non ritiene la politica che queste persone (assunte dopo selezione) andrebbero stabilizzate?

E infine, i vaccini sono stati sviluppati con finanziamenti pubblici alle condizioni imposte dalle grandi aziende farmaceutiche, con contratti secretati, impossibili da esaminare anche per i parlamentari europei. Mettiamo da parte per un attimo la sacrosanta richiesta di trasparenza. Si ritiene di continuare a lasciare in mano alle corporation del farmaco la produzione dei vaccini e la definizione delle quantità e dei prezzi di vendita? Senza sospendere brevetti e senza attrezzare produzioni statali? Senza prendere in considerazione i vaccini di produzione pubblica a Cuba? Intanto che l’Occidente parla di terza e di ulteriori dosi, in Africa ed in Asia, in Sudamerica, ci sono milioni di persone che aspettano la prima dose. Ci sarà un motivo perché la variante Omicron è partita dal Sudafrica. E non si attribuisca la colpa alle migrazioni: le varianti sono state importate dagli imprenditori europei e americani che erano andati a fare affari nei paesi poveri.

Quindi… emergenza Di che? Se non si cambiano in profondità le regole di funzionamento del nostro sistema economico sociale, senza una politica che faccia il suo lavoro – adesso – possiamo continuare a contare le ondate. E tante persone non capiscono.

Il fenomeno novax non si combatte con la supponenza. Si combatte con le buone politiche.

Riformiamo le pensioni!

l tema delle pensioni, già in discussione da decenni e oggetto di ulteriori aggiustamenti nelle intenzioni del Governo è uno di quei temi chiave che modificano profondamente il funzionamento della società. Le prime riforme delle pensioni andavano a correggere situazioni di squilibrio evidente che avevano consentito ad alcuni lavoratori e lavoratrici di andare in pensione in un’età di grande vigore e di piena capacità lavorativa, tanto che le stesse persone spesso andavano a svolgere altri lavori in autonomia, sommando i nuovi redditi alla piccola rendita acquisita con la baby pensione.

Le ulteriori restrizioni del sistema previdenziale, anche quelle attualmente in discussione, cercano fondamento sull’innalzamento delle aspettative di vita degli italiani, che, sommato alla drastica riduzione delle nascite, stanno comportando un progressivo invecchiamento della popolazione.

Il ragionamento suona pressappoco così: giacché le fasce d’età attualmente in produzione sostengono numeri di persone pensionate molto superiori rispetto a quanto avveniva in passato e poiché il rapporto tra persone produttrici e persone in pensione è destinato a ridursi ulteriormente e progressivamente nel futuro, bisognerebbe porre rimedio, aumentando l’età di pensionamento, per ridurre il numero degli anni in cui la persona vivrà di pensione e per ridurre il peso dei pensionati sui produttori.

Il ragionamento che ho provato a descrivere appare convincente, ma parte da un presupposto dato per scontato: l’invarianza della capacità produttiva delle persone nel tempo, anche in tempi lunghissimi: come se un lavoratore che operava nel 1970 producesse quanto un lavoratore che opera nel 2020. Solo che questa equivalenza non è vera: chi guardi al lavoro negli uffici o nelle fabbriche, nella logistica o nelle vendite si rende conto facilmente di una realtà assolutamente vistosa: grazie alla innovazione tecnologica un lavoratore dei nostri tempi produce una quantità di beni o di servizi enormemente superiore a quella prodotta da un lavoratore di cinquanta anni fa.

Oggi a mandare un messaggio a migliaia di clienti basta il tempo di scrivere ed inviare un messaggio di posta elettronica. Lavoro che può fare una sola persona (due se il lavoro viene supervisionato). Bastano un paio d’ore di lavoro per scrivere il messaggio, se il messaggio è articolato e importante, e bastano pochi secondi per inviarlo.

Negli anni settanta bisognava stampare le lettere, imbustarle e portarle nel luogo di spedizione. Lì sarebbero state spedite nei luoghi di destinazione, dove sarebbero state distribuite. In caso di migliaia di destinatari si può parlare del lavoro di decine di persone , in qualche caso di centinaia.

I miei coetanei ricorderanno che il modello di vendita per corrispondenza una volta erano i cataloghi “Vestro” e “Postal Market” , oggi sostituiti da “Amazon” o “Alibaba” (per i quali oggi appare primitivo anche il sistema di ordine tramite posta elettronica).

Le fabbriche di Fiat ed Alfa Romeo degli anni Settanta con gli attuali impianti di Melfi non hanno confronti, se non, forse, nel trattamento degli operai. Quante automobili uscivano al giorno da una catena di montaggio e quante ne escono oggi? Impiegando quante persone?

Se quanto ho descritto è vero, allora la questione va posta diversamente: oggi e con l’attuale livello di strumentazione tecnologica, il sistema economico quante persone inattive può mantenere? E che età devono avere queste persone? La domanda relativa all’età non deve stupire: Oggi il sistema mantiene in produzione una parte delle persone – gli adulti occupati – mentre mantiene inattive altre persone: minori in età prescolare e scolare, inoccupati, disoccupati, pensionati. Inoltre il progresso delle tecniche induce a ritenere che il numero degli occupati potrebbe ulteriormente ridursi. I processi di automazione nelle fabbriche e l’auspicato impiego massivo della rete Internet nella gestione delle relazioni con le pubbliche amministrazioni, come è già avvenuto con le banche e altre aziende produttrici di servizi, va in quella direzione: ci sarà meno bisogno di lavoro umano.

Che le persone siano educate e formate nei primi anni della vita è cosa utile per loro e necessaria per la società, che con la scuola può dotarsi di cittadini che condividono norme di comportamento condivise (l’esperienza ci insegna che non è sempre vero che l’educazione familiare consegua modelli di relazione sociale desiderabili) quindi è assolutamente opportuno che la prima gioventù sia spesa nella formazione delle persone, che incidentalmente, se meglio formate, saranno anche produttori più capaci e consumatori più educati. Si potrebbe quindi immaginare di far studiare per più tempo i ragazzi e le ragazze.

Ma ad un certo punto sarebbe bene per la società (oltre che per loro) che i ragazzi potessero effettivamente lavorare e guadagnare in modo da affrancarsi dalle famiglie di origine e magari avviare una nuova famiglia con partner e figli. Ad oggi invece abbiamo percentuali inaudite di disoccupazione giovanile: tanti giovani adulti non hanno occupazione e se ce l’hanno si tratta di occupazione precaria, a volte estremamente precaria e spessissimo malpagata. Tantissimi giovani sono imprigionati in quella categoria dei working poors (lavoratori poveri) e non possono rendersi autonomi dalle famiglie di origine. Questa situazione ovviamente deprime la demografia del paese.

A questo punto sorge spontanea alcune domande: a chi giova mantenere inattive o sottoccupate persone di venti o trenta, o quarant’anni e, insieme, mantenere al lavoro persone ultrasessantacinquenni, fisicamente meno efficienti, meno elastiche nell’acquisizione di nuove modalità operative e, spesso, meno motivate? Per quanto tempo potranno protrarsi politiche che comprimono progressivamente la natalità, impedendo la formazione di nuove giovani famiglie? Dobbiamo immaginare un futuro in cui si entra nel mondo del lavoro a quarant’anni e se ne esce a settanta? Settantacinque anni?

Solo che per muoversi nella direzione di far entrare “in produzione” gli adulti giovani e farne uscire gli adulti anziani, bisognerebbe incrementare la spesa pubblica e coprirla con un incremento del volume delle entrate tributarie. Ma il carico dei tributi sui cittadini è già molto lalto. Per aumentare le entrate tributarie, senza rendere eccessivo il carico sui contribuenti, sarebbero indispensabili alcune riforme molto profonde: una riforma della fiscalità orientata ai redditi delle persone fisiche, seriamente progressiva ed orientata ad una lotta all’evasione seria, utilizzando efficacemente l’incrocio dei dati già in possesso delle amministrazioni pubbliche; una effettiva semplificazione delle norme fiscali, per evitare dinamiche elusive e una riforma della contabilità della redistribuzione. Trovare cioè una nuova organizzazione pubblica della previdenza che porti alla trasformazione dell’INPS da ente autonomo a ufficio statale e che affidi la copertura delle pensioni alla fiscalità generale. Direttamente sul bilancio dello Stato, eliminando contemporaneamente i contributi previdenziali così come li conosciamo oggi e riducendo il carico fiscale sul lavoro.

Così si interromperebbe la connessione tra lavoratori finanziatori del sistema previdenziale e pensionati fruitori, facendo entrare nel ruolo di finanziatori del sistema pensionistico i percettori dei redditi più alti, che tra evasione, ed elusione fiscale – anche promossa dalle riforme e dai condoni berlusconiani e leghisti – da tempo si sono visti ridurre l’imposizione fiscale.

Il processo di riforma che si ipotizza dovrebbe mantenere tutta l’attenzione necessaria alla tenuta dei saldi di finanza pubblica, ma – salvaguardando i redditi medi e bassi – dovrebbe ricercare nelle maggiori entrate tributarie, più equamente distribuite, il suo riequilibrio.

Per chiudere un ultimo accenno alla lotta all’evasione: non si capisce perché non si indichino degli obiettivi quantitativi nel recupero dell’imponibile fiscale, cui legare benefiche riduzioni di aliquote per tutti i contribuenti. “Pagare meno pagare tutti smetterà di essere uno slogan quando sarà chiaro quanto si pagherà di meno quando una quantità predefinita di evasione fiscale sarà riportata nella legalità.

Il dubbio è che nell’eterno corteggiamento agli elettori più scaltri, la lotta all’evasione sia un pio desiderio da raccontarsi a mo’ di favola ai bambini per le sere invernali.

Dopo il Green pass

Un virus è qualcosa di difficile da immaginare: una piccolissima catena di acido nucleico, su cui sono scritte informazioni per plasmare materia organica, incapace, però, di produrre qualcosa senza un organismo ospite.
Una sorta di informazione fatta di inchiostro, ma che ha bisogno della carta per essere scritta. Questa sua caratteristica rende il virus difficile da trattare, ma ne costituisce anche il limite.
Le informazioni del virus, trascritte  su una cellula infettata (detta virione) possono permanere e diffondersi nell’organismo. 
Pur così elementari, i virus possono essere di diversi tipi. Un modo per distinguerli è il tipo di acido nucleico da cui sono costituiti: DNA (più stabile) o RNA (più instabile). 
Un altra caratteristica è il mezzo con cui si diffondono: se basta il contatto con microscopiche gocce di saliva,  tanto da potersi diffondere attraverso il respiro, o se ci vuole il contatto col sangue o altri fluidi, diffondibile per via sessuale o per contatto col sangue.
Ovviamente importante è distinguere i virus per gli effetti che possono avere sul nostro corpo. Il virus del raffreddore è diverso da quello del morbo di Ebola. Questo fa del virus del raffreddore un virus di successo: lasciamo con una certa noncuranza che si diffonda, mentre ogni volta che in qualche parte dell’Africa si è manifestato il virus Ebola, si alzano immediatamente altissime  barriere di isolamento verso le comunità colpite. 
Il COVID19 o SARS COV2 è un virus a RNA, per cui trasmettendo muta con facilità; è un virus a trasmissione aerea, per cui si diffonde con facilità; è un virus che provoca una mortalità importante, ma non uccide tutti coloro che si infettano: ad oggi ha manifestato una mortalità di circa l’1%.
Queste sue caratteristiche, hanno fatto sì che, innestato nella popolazione umana, in questa fase storica, esso ha potuto diffondersi in tutto il mondo con questa velocità e letalità. 
Infatti il covid ha tanti punti a suo vantaggio: basta l’alito a trasmetterlo e inoltre  tanti non ne hanno timore, perché guardano alle esperienze delle persone che si sono infettate senza o con pochi sintomi. In più il covid passando da un ospite all’altro genera facilmente delle mutazioni che potrebbero renderlo più o meno contagioso, più o meno letale. 
L’impatto di questa malattia è stato enorme sull’umanità in generale e sul nostro Paese in particolare. 
Il 21°secolo è un tempo di grandi collegamenti tra luoghi e comunità anche molto distanti. È un tempo in cui i poteri pubblici sono fortemente condizionati dai poteri privati e anche e per questo soffrono di carenza di autorevolezza sulle società che amministrano, società estremamente diseguali, fortemente conflittuali e insofferenti delle regole e delle indicazioni provenienti dall’alto.
Nella prima ondata pandemica nessuno sapeva nulla dei meccanismi di trasmissione del virus e della sua azione sull’organismo. Ci si è trovati con gli ospedali pieni di persone malate, con tanti sanitari caduti, curando una malattia che non conoscevano. 
L’unica cosa che si capiva era che il covid si trasmette per via aerea ed era necessario l’isolamento. Ma poiché la letalità non era di totale evidenza, in tanti si permisero di prendere la questione sottogamba, acuendo il problema. Pensiamo ai no mask, o agli imprenditori che continuavano a produrre per consegnare. Quanti morti in Lombardia! 
Poi con uno sforzo enorme (finanziato dagli Stati) sono stati creati i vaccini. Erano indispensabili  per i sanitari, rendendo più sicuro il lavoro del personale più esposto e necessario. Il vaccino è stato necessario anche e quantomeno per ridurre i sintomi ed evitare che il contagio provocasse tanti ricoveri in terapia intensiva e tanti altri morti. In quella fase  abbiamo visto la corsa di tante categorie a vaccinarsi per prime – anche prima di anziani, malati e categorie a rischio.
Oggi che sono disponibili i vaccini – nell’Occidente ricco – si tende a realizzare la vaccinazione di massa per “tornare alla situazione pre covid” . 
È una strada percorribile? E dove porta? 
Ma prima di tutto una domanda: la situazione pre covid è un obiettivo? 
Il passaggio all’uomo del virus può inquadrarsi tra le conseguenze del nostro rapporto con l’ambiente naturale. Continuiamo a saccheggiare l’ambiente come se le risorse, aria, acqua, suolo, fossero  senza fine. Trattiamo gli animali come fabbriche di carne e li alleviamo in  condizioni atroci. Si potrebbe continuare per molto. 
D’altro canto le criticità della societa attuale, non sono necessitate; sono figlie di scelte politiche e culturali. 
La verità è che la pandemia ha svelato una gran quantità di storture e la cosa peggiore che potremmo fare è ignorare il messaggio forte e chiaro che ci ha trasmesso. Intanto ci apparecchiamo a fare proprio così: a curare i sintomi della crisi ambientale, lasciando inalterate le cause.
Cominciamo coi vaccini. Sono venduti col criterio del massimo profitto e non del massimo vantaggio per le persone. Così per sfruttare i brevetti si limita la quantità producibile e la disponibilità per i paesi più poveri. Senza dire dei vaccini alternativi a quelli prodotti da USA ed Europa, che vengono ostacoli per ragioni geopolitiche. Pensiamo ad esempio ai vaccini cubani, prodotti nonostante l’embargo. 
L’attacco alla pandemia può essere condotto con l’isolamento, coi vaccini e con la cura delle persone malate. L’isolamento è stata la prima, naturale reazione, ma comporta un enorme modifica dei comportamenti sociali.  Tra tutti i costumi quelli relativi ai modi  di consumo e di produzione sono stati difesi con forza dalle elites. Anche a costo di lasciar rinfocolare la pandemia. Pensiamo agli USA di Trump, al Brasile di Bolsonaro, ma anche alla Lombardia di Fontana. 
L’attacco migliore sarebbe mischiare vaccini e miglioramenti alle tecniche di cura. Finora, però sembra che queste comportino grandi cambiamenti di gestione dell’economia: ci vorrebbe una ricostruzione della medicina territoriale e dell’assistenza medica di base. Ogni malato andrebbe seguito singolarmente con cure modulate sulle reazioni del suo corpo al virus. 
I vaccini, hanno costituito una modalità efficace per fermare l’ondata di ricoveri nei reparti e nelle terapie intensive, che avevano bloccato gli ospedali, ma sembra proprio che non fermino la diffusione del virus e con quella le mutazioni, potenzialmente pericolose. Quindi i vaccini non esentano da un prudente distanziamento.

Quindi il Greenpass, funzionale a spingere le persone a vaccinarsi, non attesta l’innocuità di coloro che ne dispongono.


Torniamo alla questione iniziale: si può ricominciare dal vecchio modo di amministrare la società la salute, la produzione rapsce ed il consumo compulsivo? Oppure bisogna operare grandi cambiamenti?


Approcciare  la pandemia con coraggio e intelligenza può portarci con più speditezza a cambiamenti da sempre necessari  per rispetto della dignità delle persone e da sempre evitati per le convenienze economiche di pochi: trasporti pubblici abbondanti dove persone non si schiacciano le une alle altre, classi scolastiche di quindici o venti alunni, case decenti disponibili per tutte le famiglie, una medicina territoriale attenta sin dalla prevenzione, lavoro rispettoso della sicurezza e della salute delle persone. Uso attento dell’energia e investimenti sulla ricerca e sulla istruzione superiore. E, più in generale, attenzione a ciò che succede intorno a noi, anche nei luoghi più lontani. Perché i problemi possono generarsi lontano, ma si muovono e ci raggiungono.


L’alternativa è continuare a cercare false soluzioni, che generino cambiamenti apparenti, spostando in avanti la resa dei conti con la Natura.

Francesco Campanella e Gian Luca Eusebi Borzelli

Per lavorare sicuri

Al 31 Dicembre 2020 sono state segnalate all’INAIL 554.340 denunce d’infortunio, di cui 1270 con esito mortale
Nei primi tre mesi di quest’anno le denunce di incidenti mortali sono state 185, 19 in più rispetto alle 166 denunce registrate nel primo trimestre del 2020. Un incremento maggiore dell’11,4%.

Con questi numeri non possiamo parlare di disgrazia, di casualità. Semplicemente si è affermato un inconfessato modo di vedere. Una cultura che considera accettabile per il nostro sistema produttivo che ogni tanto qualcuno ci lasci la pelle.

La CGIL ha presentato un progetto di legge di iniziativa popolare: “Carta dei Diritti Universali del Lavoro ovvero nuovo Statuto delle Lavoratrici e dei Lavoratori” e anche la politica non è stata immobile: ha prodotto importanti leggi sulla sicurezza sul lavoro. Intanto si continua a morire. Meno durante le fasi peggiori della pandemia, ma adesso, con la ripresa di più intensi ritmi di produzione, gli incidenti sono tornati ad aumentare. Cosa si può fare?

Di certo aumentare i controlli. Sono insufficienti da tanto. Migliaia di ispettori sono andati in pensione negli anni e non sono stati sostituiti. Durante gli anni il sistema pubblico dei controlli è stato depauperato da una politica più attenta alla spesa pubblica che ai servizi pubblici. Oltretutto la funzione pubblica di controllo delle attività produttive non è particolarmente apprezzata dal mondo delle imprese, ancor di più perché, insufficiente per carenza di mezzi e quindi ineguale, non riesce certo a controllare tutto e tutti.

D’altronde il rispetto delle leggi non può essere affidato solo ai controlli d’ufficio. Serve una cultura diffusa della sicurezza presso imprese e lavoratori e ai lavoratori serve la garanzia che la denuncia, ma già una richiesta di rispetto del diritto alla sicurezza, non comporti il licenziamento o la mancata chiamata.

Ma il lavoro oggi è quasi tutto precario (quando non più o meno in nero) e qui diventa complicato: come fa un lavoratore che deve “ringraziare per la possibilità di lavorare” a chiedere che un macchinario abbia tutte le protezioni previste dalla legge?

La difesa di alcuni datori di lavoro nelle microimprese, quando dicono che loro lavorano nelle stesse condizioni dei propri dipendenti è debole, inconsistente. Loro possono scegliere. I dipendenti?

I controlli sono quindi necessari, ma allo stato insufficienti. Lo ha riconosciuto il presidente del consiglio Mario Draghi che si è impegnato ad assumere 1084 nuovi ispettori del lavoro. Sempre troppo pochi in rapporto a quelli andati in pensione negli anni scorsi, ma già un primo passo. Basta?

Probabilmente no. Rimane indispensabile il rispetto per le persone che lavorano, per gli altri e per sé stessi. È necessario creare – oramai quasi dal nulla – una cultura dei diritti delle persone sul lavoro, una cultura del rispetto delle persone e dei loro corpi, perché a ben vedere il problema serio è che il culto dei beni, della ricchezza e degli utili delle imprese, ha superato (e pure di tanto) il culto della persona. Come si spiegherebbe altrimenti la mancanza di attenzione non solo per chi lavora, ma anche per chi consuma. Su questo versante, citiamo solo le polemiche sulla leggibilità delle etichette dei prodotti di largo consumo.

Ma se conveniamo sulla necessità di una spinta forte della cultura diffusa del rispetto delle persone e quindi della sicurezza e della qualità del lavoro e dei prodotti. Chi dovrebbe farsene promotore? Quali agenzie dovrebbero produrre questo cambiamento?

Dovrebbe farsene promotrice la Repubblica e quali agenzie più efficaci della scuola e della televisione? La scuola si è già caricata della diffusione della educazione civica, che da poco ha ricevuto una spinta importante. La televisione è potente, potentissima presso tutti i segmenti sociali a culturali.

Percorsi possibili ce ne sono. Se ne possono immaginare altri.

C’è La volontà?

QuieteRAI

Tanti i post relativi alla denuncia pubblica di Fedez.

Abbiamo un’idea precisa del mondo della politica e un po’ anche del mondo dei grandi burocrati, contiguo a quella. Sappiamo che la politica è governata da una sorta di etica tribale per cui il tuo clan va sempre e comunque difeso, mentre bisogna approfittare delle defaillances degli altri clan.

Il burocrate obbedisce agli ordini della parte politica cui deve il proprio ruolo e, se può evitare di assumere posizioni nette contro gli altri politici, cerca di evitare i guai, alla ricerca di un quieto vivere tanto agognato quanto improbabile in posizioni desideratissime e quindi invidiatissime.
Insomma evita di farsi (altri) nemici.

Oggi sono quasi tutti pronti a lapidare i funzionari della RAI che hanno provato ad esercitare il pessimo tentativo di censura preventiva denunciato da Fedez e altrettanti lodano la libertà ed il coraggio del cantante.

E da un po’ di tempo che nutriamo un certo disagio di fronte al consenso generale, specie rispetto ai fatti e agli atti clamorosi

I laudatori chi sono? Di norma che comportamenti tengono? Si astengono dall’esercitare il proprio potere sulla RAI?
Oppure stanno solo attaccando i vertici della RAI, espressi a suo tempo dalla Lega?

Mi sembrano molto più interessanti i commenti di Sigfrido Ranucci e di Beppe Giulietti, che liberamente interpretiamo così: un sistema ingessato in RAI c’è e va rimosso, perché la RAI è l’azienda culturale più importante del Paese. E Fedez, ma non solo lui, va lasciato lasciato parlare liberamente, anche quando dice cose che non piacciono ai nostri amici.

In definitiva la Lega deve togliere le proprie grinfie dalla RAI, ma non a favore di PD e M5S, a favore della qualità del pubblico. Si può fare?

Se così fosse sempre, si parlerebbe molto di più della sostanza delle cose e non solo di ciò che vuole la politica. E proposte di legge sacrosante come il ddl Zan sarebbe già legge, come avviene in tanti paesi dell’Occidente più avanzati del nostro.