Ma perché si astengono?

In qualsiasi attività umana  c’è un tempo per  preparare il risultato  ed un tempo per raccogliere i frutti del lavoro svolto. È così sin dalla preistoria, da quando si è passati dall’uomo raccoglitore – cacciatore all’allevatore e agricoltore; avviene oggi con le campagne di marketing e avveniva anche in politica coi vecchi partiti di massa, nei quali venivano coltivate analisi della società, senso di  appartenenza e si facevano crescere gruppi dirigenti.

Sin dagli anni ’80 la politica è andata perdendo pian piano il nesso tra analisi collettiva e  raccolta dei voti. Allungando la connessione tra gruppi dirigenti e base e privilegiando forme differenti di leaderismo, fino ad arrivare ai partiti leggeri, assenti dai territori, per i quali la base significativa sono gli elettori e gli iscritti, gli attivisti hanno perso  funzioni. In questo modo la politica  cerca voti in una società da cui si tiene separata. Come un’azienda fornisce beni o servizi ai clienti, così la politica offre decisioni pubbliche agli elettori

Infatti  i gruppi dirigenti di oggi,  studiano le preferenze degi elettori tramite le indagini demoscopiche e costruiscono consenso con le  tecniche del marketing (salvo il caro vecchio clientelismo, che però è un metodo disponibile soprattutto a chi governa e quindi può disporre dei fondi pubblici).

Una politica siffatta trova nel sistema elettorale maggioritario il modo naturale di competizione tra gruppi di potere contrapposti. Gruppi che hanno necessariamente programmi non troppo dissimili In quanto devono raggiungere e convincere la gran massa degli elettori, che per motivi statistici tende a stare al centro, per la difficoltà di esprimere scelte nette, subordinate a convincimenti profondi derivanti  da conoscenze approfondite o da ignoranze  pertinaci.

Però il sistema maggioritario, soprattutto nella sua versione a turno unico, è il sistema in cui la maggioranza relativa vince e diventa assoluta, ed il vincitore col 40% prende tutto.

È il sistema più efficace per allontanare le persone dal voto, costrette come sono a scegliere tra un obbligato bouquet di candidati quello che piace di piu, o spiace di meno.

Costretti come sono a bere o ad affogare, i potenziali elettori vedono appassire le loro facoltà di scelta e – a meno di non avere accesso a rapporti diretti con i candidati, futuri eletti – gli elettori si rendono conto di doversi  accontentare di quello che passano le segreterie dei partiti, oppure possono scegliere di astenersi.

E l’astensione è una malattia della democrazia.

Ho sentito argomentare che coloro che si astengono, lo fanno perché sono soddisfatti dell’andamento delle cose e ritengono superfluo andare a votare. È un ragionamento che può indurre all’ira in un Paese che è tornato luogo di emigrazione pur in presenza si un vistoso calo delle nascite. Un paese in cui non si fanno figli e da cui sempre piu spesso si fugge.
In Italia gli elettori disertano le urne perché hanno seppellito altrove le proprie speranze di miglioramento.
C’è rabbia e paura e, una volta ostracizzate le ideologie socialiste o financo socialdemocratiche, la rabbia è fagocitata dalle destre,  che nelle urne raccolgono la frustrazione degli elettori socialmente vinti e la mettono insieme ai progetti di appropriazione dei beni pubblici da parte degli affaristi e di una torma di famelici clienti e parenti.

Non è che i parassiti si accompignano solo alla destra, il fatto è che con la destra sono più evidenti per la carenza di progetti di cambiamento della società, che  contraddistingue la destra.

Tutto ciò si può curare. I popoli sono resilienti per natura; sopravvivono anche tra le sofferenze. Però serve un cambio di paradigma e, come insegnano gli epistemologi, i paradigmi cambiano insieme alle generazioni.

Probabilmente ciò è vero anche in politica.

Il sistema dell’infelicità. E la cura.

Volendo alzare lo sguardo per guardare più in là, per immaginare uno scenario diverso, è utile valutare due aspetti: le criticità del sistema mercatocentrico e i possibili percorsi di cambiamento.

Cominciamo col dire che il mercato e le ideologie che lo sottendono ha una formidabile agenzia di propaganda implicita nella pubblicità, che se è divenuta nel tempo sempre più efficace nel convincere della bontà del prodotto reclamizzato, è oramai da decenni un veicolo di formazione subliminale di consenso: si può preferire un marchio di detersivo o un altro , ma non si mette in discussione che un lenzuolo debba essere candido per poter essere steso su un letto; si può preferire il rasoio o la ceretta, il laser o altri strumenti tecnici, ma non si discute che i peli superflui debbano essere eliminati.

La pubblicità per sua natura deve parlare a quanta più gente possibile, quindi deve utilizzare codici di comunicazione quanto più universali possibile, per cui il riferimento più o meno mediato è pressoché sempre agli istinti più basici: fame, sesso, paura. Oltretutto il riferirsi alla voglia di mangiare, congiungersi, proteggersi è effettuato in modo sempre più tecnicamente raffinato, grazie a studi di psicologia dedicata che lasciano molto poco spazio alla capacità di discernimento razionale.
Per inciso possiamo dire che l’enorme sviluppo della pratica della pubblicità e degli studi dedicati, grazie anche alla grandissima quantità di fondi disponibili, ha reso questo mezzo capace di espressioni estremamente raffinate, tanto da rendere alcune performance vere e proprie forme d’arte. La qualità degli strumenti impiegati nulla, però, toglie alla sostanza manipolatoria del mezzo.

Ma la pubblicità serve ad indurre bisogni. Perciò è nata e perciò è coltivata. Ma il destinatario della pubblicità, recettore di enormi quantità di messaggi, che gli dicono che ha bisogno di quel cibo, di quell’abito, di quell’automobile, di quel viaggio, nella maggior parte dei casi non può accedere a quei beni.

E non può accedervi anche perché della ricchezza prodotta dal sistema la maggior parte delle persone non riceve che le briciole. Questo può far pensare che il sistema neoliberale, il sistema dei mercati, produca una grande quantità di frustrazione e quindi di infelicità, come prodotto di scarto.

Il dubbio che val la pena di esplorare, però, è se la frustrazione e l’infelicità non siano piuttosto uno strumento di mantenimento del sistema, purché gestite, purché indirizzate opportunamente.

Attenzione. Tutti i sistemi politici si sono basati su diverse forme di anestesia dei governati: dalle feste, agli spettacoli teatrali alle corse di bighe, ai giochi del Circo, alle religioni. Però quelle distrazioni di massa, in genere lavoravano sulle masse, che masse restavano: i popolani si incontravano, vivevano emozioni collettive, a volte si producevano in sommosse.

Una caratteristica innovativa della anestesia neoliberista dei governati è invece l’avere polverizzato il popolo, riducendolo ad una massa  di individui, una massa tanto incapace di assumere forme definite, da essere indicata come liquida.

Le occasioni di socializzazione sono praticamente avversate: anche la posizione di eventi e rappresentazioni destinate al consumo collettivo sono fruite individualmente: l’esempio della circolazione dei film passata dalle sale cinematografiche prima ai DVD e poi alla distribuzione sulle piattaforme di streaming, insieme agli eventi sportivi,  insieme ai giochi per ragazzi passati dai giochi fisici ai videogiochi di cui si è favorita l’esperienza on-line.

I personal computer, che erano già stati soppiantati nell’uso ludico dalle apparecchiature dedicate ai videogiochi, sono stati a loro volta sostituiti dal device più individuale di tutti: lo smartphone. Quest’ultimo strumento è diventato così pervasivo da riuscire a disgregare anche la compresenza tra pochi: capita a tutti di vedere persone in coppia o intere comitive stare vicino ma ciascuna intenta ad interagire col proprio telefonino.

Non è più fantascienza la proposta di partner virtuali mossi dalle intelligenza artificiale e generati dall’utente in base alle sue preferenze. Il trionfo del solipsismo.

Ovviamente per il mantenimento di una società così composta la scuola non è soltanto inutile:  è dannosa. Dopo aver reso pressoché impossibile lavorare allo sviluppo della persona, in classi pollaio seguite da persone precarie e malpagate (dove riuscivano a lavorare bene soltanto le persone estremamente motivate), si è passati a scuole votate allo sviluppo di “risorse umane” per le imprese. Scuole che coltivassero produttori non troppo fantasiosi e volitivi.

La società frutto di questo sistema è infelice e non potrebbe essere altrimenti. Le persone sono indotte a coltivare bisogni molti dei quali irrealizzabili, gli si prospettano obiettivi spesso irraggiungibili e le si convince che se non riescono è perché non hanno meritato il successo. L’unica protezione sarebbe la famiglia, spesso ridotta a coppia, a cui ci si  attacca disperatamente in assenza di altri punti di riferimento, ma anche la coppia è sottoposta a tensioni che ne aumentano la precarietà. Di fronte a una diffusa sensazione di solitudine e isolamento, gli omicidi – suicidi sono diventati frequentissimi, insieme ad altre reazioni abnormi alle situazioni conflittuali.

Tutto ciò non è un destino immutabile. Non ci si può abbandonare a questo stato di cose. Si può e si deve cambiare.
La cura sono le relazioni vere, fisiche, durature, non solo finalizzate. Una volta c’erano i partiti, o  le Chiese, le quali hanno mantenuto caratteri di superfamiglia e pur attaccate da più parti e affaticate dell’individualismo, hanno resistito meglio di altre aggregazioni.

Ma quello che è da aggiustare è il modo di produrre e quello di consumare. L’iniziativa privata è sicuramente efficace per perseguire l’innovazione ma, se non controllata, si trasforma e si muove con modalità selvagge, regolata dalla legge della giungla: pochi predatori, circondati  da gregari e poi la moltitudine delle prede. E le ultime innovazioni tecnologiche amplificano il problema.

Alla fine il tema è tornare a quell’equilibrio tra economia e politica scritto nella costituzione del ’48, bistrattata e a tratti stravolta dalle modifiche introdotte dalla seconda Repubblica: svilimento dei controlli parlamentari con legge elettorale maggioritaria, spostamento del baricentro legislativo verso le regioni, aprendo la strada a tentativi criptoscissionistici come l’autonomia differenziata. L’impastoiamento del Parlamento con la modifica dell’articolo 81. Adesso anche il tentativo di ridurre ulteriormente la funzione parlamentare e quella del Presidente della Repubblica, blindando il Governo.
Per non dire della drastica riduzione della progressività del sistema fiscale, che si aggiunge alla diffusa e tollerata evasione fiscale.

C’è bisogno di un vero riformismo, che si proponga di tornare allo spirito della Costituente, quella si aveva trovato una sintesi tra gli opposti.

Per farlo bisogna parlare alle persone e metterle in relazione ed esortarle a parlare del loro presente e del loro futuro, senza farselo raccontare da altri.

Disturberemo il manovratore.

La Costituzione repubblicana approvata dalla Costituente ed entrata in vigore nel 1948 è il risultato travagliato di una difficile sintesi , un equilibrio tra diverse culture italiane quella cattolica, quella liberale quella socialista e quella qualunquista, la quale fu un po’ il modo in cui quegli italiani, che avevano appoggiato il fascismo da posizioni defilate, erano rappresentati nella Costituente.

Un equilibrio fragile e destinato a subire attacchi continui non appena le condizioni si fossero modificate.

Certo è che se nei settantacinque anni di vigenza della Costituzione l’attenzione spesa per la sua riforma fosse stata impiegata per la sua applicazione, l’Italia oggi sarebbe un paese diverso.

Appare evidente che le modifiche della Costituzione apportate nel tempo l’abbiano resa meno coerente, meno leggibile e meno efficace rispetto agli obiettivi che si proponeva: una società in cui la politica si esprimesse non solo negli organismi istituzionali, ma anche nella partecipazione negli organismi intermedi. Una società in cui l’indifferenza, che tanti danni aveva creato nei decenni precedenti la seconda guerra mondiale fosse sostituita dalla partecipazione dei cittadini.

I tentativi di modifica della Costituzione – e soprattutto gli ultimi – sono stati tesi a ridurre il controllo parlamentare sul governo e a riduzione le occasioni di partecipazione popolare.

Tutto questo si inserisce nel flusso coerente che ha prodotto la legge sulla regolamentazione – affievolimento del diritto di sciopero e, soprattutto, la riforma del sistema elettorale in senso maggioritario.

La nostra Costituzione In effetti ha un bug: la divisione dei poteri prevista dall’ideologia illuministico liberale è resa in modo imperfetto: il Parlamento ha una funzione sovraordinata rispetto agli altri organi costituzionali, con fortissime attribuzioni di controllo sia sul potere esecutivo sia su quello giudiziario.

Questo perché il Parlamento, eletto direttamente sarebbe l’attuatore della sovranità che, recita l’art. 1, “appartiene al Popolo”. Ma questa impostazione funzionava fino alla riforma del sistema elettorale in senso maggioritario Eletto col sistema proporzionale il Parlamento era una rappresentazione fedele degli orientamenti popolari.

Il Parlamento eletto con il maggioritario, invece, istituisce un’immedesimazione tra volontà parlamentare e volontà del governo tanto forte da sostanziarsi in una liberazione del Governo dal controllo parlamentare, anzi nella trasformazione del Parlamento in una cassa di risonanza della volontà della maggioranza di governo, oltre che di un ammortizzatore capace di catalizzare su di sé la responsabilità delle scelte governative.

L’unica criticità in questo asservimento del parlamento al governo fino adesso è stata costituita dal meccanismo di elezione del Senato della Repubblica, che essendo effettuata per Costituzione su base regionale non garantisce una maggioranza uguale a quella della Camera, eletta su base nazionale. Infatti in tutte le legislature dal ’94 in poi le preoccupazioni dei governi si sono sempre focalizzate sul Senato in cui le maggioranze erano meno stabili e più risicate.

A questo punto coi partiti alleggeriti dalle ramificazioni territoriali e la rappresentanza parlamentare allontanata dai territori anche per la riduzione del numero dei parlamentari il governo è già arbitro mal controllato del gioco politico.

Per metterlo al riparo da scossoni e assolutamente fuori controllo serve soltanto depotenziare la Presidenza della Repubblica e sterilizzare la possibilità che il Parlamento tolga la fiducia.
Se entrasse in vigore la proposta di revisione costituzionale del governo Meloni, il Premier verrebbe eletto insieme al Parlamento (votato con la stessa scheda – come già i sindaci) ed i partiti che gli sono collegati otterrebbero il 55% dei seggi, anche se alle urne non avessero la maggioranza assoluta.

A questo punto, superando la sensazione di deja vu nel Ventennio, viene spontanea una domanda: con un architettura siffatta, quanto conta la volontà di un cittadino?

Basta guardare a quello che hanno prodotto i governi “stabili”: peggioramento delle pensioni, partecipazioni a guerre non volute dalla maggioranza dei cittadini, mancata lotta all’inflazione, mancata cura del territorio e contemporanei tentativi di mettere in cantiere opere faraoniche come il Ponte sullo Stretto di Messina. E tutto questo senza il rischio di essere ‘mandati a casa”.

Con la riforma Meloni si eliminerebbe anche la pallida possibilità che di fronte ad un disastro conclamato i parlamentari sfiducino il governo, inducendo il Presidente della Repubblica a nominare un altro Presidente del Consiglio.

È quello che vogliono gli italiani?

Se questa maggioranza approvasse questa revisione della Costituzione, lo vedremo al referendum.
Noi voteremo NO.

Il contrario di quello che stanno facendo.

Dall’Africa si emigra, le persone fuggono la sete, la fame, le malattie le guerre.
Purtroppo la maggior parte dei mali da cui scappano gli emigranti derivano dalle attività passate e presenti degli occidentali.

L’africa è stata per tanto tempo un luogo da cui estrarre materie prime al minor prezzo e piu di recente il luogo in cui portare gli scarti ed i rifiuti pericolosi.

In più l’africa è uno dei luoghi in cui il cambiamento climatico ha fatto piu danni, a cominciare da siccità e desertificazione.

Perciò l’espressione aiutiamoli a casa loro è intrinsecamente falsa ed ipocrita: l’aiuto maggiore per i popoli africani sarebbe lasciarli in pace. Inutile dire che le multinazionali occidentali non hanno alcuna intenzione di farlo.

Il fatto è che l’Occidente ha bisogno delle materie prime dell’Africa, ma non vuole le conseguenze critiche della propria attività.
I migranti possono essere accolti solo nella misura in cui possono essere utili: così dopo aver sfruttato le materie prime africane possiamo sfruttarne anche la popolazione.

Ma chi può condannare i giovani che dai paesi subsahariani partono all’avventura per fuggire a una vita impossibile?
Può farlosolo quella politica che ha trovato nei migranti il capro espiatorio su cui focalizzare le attenzioni dei popoli europei, a disagio per l’indebolimento dell’attività degli Stati, a cominciare dalle attività di coordinamento e regolazione della società. Il sistema economico dominante vuole stati deboli e o complici

Una società in cui il sistema economico spinge tutti contro tutti verso una competizione senza regole. Una società rinselvatichita in cui ciascuno prende ciò che può senza rispettare l’altro, in cui omicidi e violenze wulle dinn o sui piu indifesi vengono filmati e ostentati sui social. Però per le persone è tanto più rassicurante proiettare fuori dal “noi” verso il nuovo arrivato le proprie paure. In Queste narrazioni il migrante diventa il nemico perfetto.

Questa narrazione, però, ha un difetto: non può indicare una soluzione stabile. Ecco che si trova il super nemico negli scafisti, nei trafficanti di esseri umani, che gestiscono la migrazione. Ignorando che scafisti e trafficanti si limitano a trarre profitto parassitario da dinamiche che preesistono a loro e che ci sarebbero anche senza di loro: i ragazzi verrebbero via dai Paesi africani anche se non ci fossero trafficanti, anche se non ci fossero scafisti.

Se anche l’Occidente smettesse qui ed ora di sfruttare i territori africani (e non sembrano proprio intenzionato a farlo) per effetto di una sorta di inerzia, e prima che la vita neinpaesi di partenza migliori sensibilmente, oper qualche tempo le persone continuerebbero a partire dalle proprie case, in cerca di una vita migliore.

Per questo la soluzione non è trattenere I migranti di là del mare: la soluzione è eliminare i fattori che li spingono a partire e nel frattempo gestire i flussi di persone, che non possono essere fermati nei campi di concentramento. Né in quelli libici né in quelli Turchi né in quelli italiani o greci. E gestire quei flussi significa organizzarsi e accogliere provando ad integrare. Proprio il contrario di ciò che stanno facendo.

Il bello è che i cittadini sono spesso più avanti dei governi: un esempio chiarissimo sono stati i cittadini di Lampedusa, che hanno solidarizzato concretamente con I migranti.

Per questo abbiamo avviato una raccolta di firme su change.org per chiedere che agli abitanti dell’isola di Lampedusa venga conferito il premio Nobel per la pace.

Questo è il link:

https://www.change.org/Il_Nobel_ai_Lampedusani_gente_di_Pace

la nostra proposta per il XXI secolo.

La Democrazia, il governo del Popolo, funziona bene tra uguali. Una società è danneggiata dalla presenza di persone troppo povere come dalla presenza di persone troppo ricche, perché nell’esprimere la propria volontà, i propri voti, chi è troppo povero è ricattabile e chi è troppo ricco ha la concreta possibilità di cambiare le regole (durante la partita) quando e come vuole. 

L’obiettivo centrale è curare la società dagli eccessi, dalla miseria e dalla opulenza, anche perchè storicamente l‘equilibrio è il presupposto delle società più sviluppate, più armoniche, più felici.

Ma l’uguaglianza non può essere né totale né imposta dall’alto: le persone non sono tutte uguali, anzi sono tutte diverse l’una dall’altra: differenze di tutti i generi, gusti, desideri, sensibilità. C’è chi vuole disporre di più cose – e per questo è disposto a un maggiore impegno – e chi preferisce più tempo libero. Ci sta. C’è anche chi parla di merito, ma questo termine ha senso solo a parità di condizioni e nell’ambito di processi semplici, senza condizionamenti esterni, condizioni che nelle complesse realtà sociali non si verificano mai.

È giusto che chi vuole impegnarsi di più sia libero di farlo e di raccogliere il frutto del proprio lavoro. Però la libertà di fare di più, se non è regolata, spinge naturalmente verso l’inasprimento delle disuguaglianze: chi ha ottenuto un vantaggio tende a stabilizzare i risultati ottenuti, magari per trasferire questi risultati ad altri, i figli per esempio, che così possono   avvantaggiarsi anche senza sforzi propri. 

Qui deve intervenire la spinta riequilibratrice dello Stato, per evitare che la ricchezza diventi un vantaggio incolmabile. Per questo la Costituzione dice che “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. 

Tutti hanno diritto a scuole pubbliche e ad università gratuite e funzionanti, perché tutti hanno il diritto di concorrere alla pari ai ruoli sociali di maggiore responsabilità e prestigio.

Tutti hanno diritto al lavoro – pagato tanto da poterci vivere dignitosamente – per avere un ruolo attivo al funzionamento della società.

Tutti hanno diritto a cure mediche gratuite tempestive e di buona qualità, per essere liberi dal timore che una malattia non possa essere curata o li porti alla rovina propria e delle proprie famiglie. 

Sappiamo che il progetto della Costituzione non si è mai realizzato appieno per la resistenza di settori politici e sociali conservatori, ma tale obiettivo rimane il nostro per questo XXI secolo, anzi oggi è più urgente ed è anche più raggiungibile per effetto delle enormi innovazioni tecniche avvenute. 

Alcune riforme sono diventate urgenti, per evitare che l’acuirsi delle sofferenze sociali porti ad una situazione irriformabile. Il fatto che non ci siano alternative risulta  naturalmente inaccettabile per chi nell’attuale stato di cose sopravvive a malapena.

Ma per realizzare qualsiasi riforma bisogna  ricostruire la macchina della Repubblica: Stato Regione ed Enti locali. E’ attraverso queste strutture che  si possono mettere in atto i cambiamenti necessari. Serve un settore pubblico che funzioni veramente, dalla Sanità alla Scuola, all’Assistenza sociale, alla manutenzione del Territorio, alle funzioni di controllo. Oggi non è così. Le amministrazioni pubbliche da più di  30 anni sono state messe nelle condizioni di non funzionare, disattivate: il blocco del turn over ha ridotto e fatto invecchiare il personale e questo stesso personale spesso non ha fruito di aggiornamenti e formazione. La peggiore politica clientelare ha fatto di tutto per infiltrarlo e condizionarne impropriamente l’attività.

Le pubbliche amministrazioni devono tornare nelle condizioni di funzionare, essere messe in grado di utilizzare al meglio le tecnologie dell’informazione e per questo servono funzionari pubblici giovani e preparati, selezionati con concorsi pubblici e destinati a rimanere impiegati stabilmente, al fine di disporre di organizzazioni efficaci al giusto costo. 

Certo la riattivazione della macchina pubblica ha un costo non indifferente. 

Che fare? Bisogna invertire la rotta: ad oggi Stato ed enti pubblici non riscuotono il necessario per funzionare e in più spendono troppo per acquistare beni e servizi, spesso di cattiva qualità. Il dissesto della macchina pubblica non era inevitabile e non è stato casuale. Neutralizzare gli uffici pubblici é stato funzionale alla riduzione di tutti i controlli: sulla riscossione dei tributi, sul rispetto degli spazi e dei beni comuni, sull’ambiente.

Per finire, la neutralizzazione degli Uffici pubblici è servita per offrire all’economia privata proficue occasioni di guadagno, sostituendosi al Pubblico: dalla Sanità alla Scuola, dalle Università alla distribuzione dell’acqua alla mediazione tra domanda e offerta di lavoro, financo alla vigilanza del territorio. Inoltre la politica usa gli uffici pubblici per coltivare il consenso, ponendosi come rimedio “ad personam” per superare le lungaggini burocratiche create dalla stessa politica con norme ambigue, quando non contraddittorie.

La riappropriazione di spazi di attività da parte del settore pubblico non significa negazione dell’iniziativa privata. Questa, se operata nel rispetto dei diritti dei lavoratori, dei consumatori e dell’ambiente è un elemento prezioso di pluralismo e di autonomia individuale. e come tale può svolgere un’importante funzione nell’innovazione dei prodotti e dei processi. Essa non deve essere caricata di costi di assistenza, che devono essere pubblici perché universali e non deve essere assistita da fondi pubblici sotto forma di contributi a fondo perduto, di agevolazioni incondizionate e di altri supporti che gravanti sulla spesa pubblica. 

Inoltre l’iniziativa privata sarebbe avvantaggiata da una macchina pubblica efficace, da controlli veloci, capaci di bloccare le forme di concorrenza sleale e da una veloce e precisa amministrazione delle controversie.

Seguiteci. vi proporremo le nostre priorità.

Just “pro reo”?



Come chiamare il fenomeno per cui la vittima è colpevolizzata per l’evento dannoso subìto?
Il neologismo vittimicidio è gia stato creato per descrivere l’atteggiamento diffuso nella cultura patriarcale per le fattispecie che colpiscono le donne, intimidite, zittitte, maltrattate, violate, perché sarebbero state petulanti, arroganti, inquiete, provocanti.

Ma a ben vedere nel nostro Paese è in voga (e sedimentata) una cultura in cui l’Autorità è flebile e inefficace, quando non addirittura complice: il colpevole viene di fatto lasciato impunito, quando non ammirato per la sua audacia.

Come spiegare altrimenti il Fascismo, il Berlusconismo o il Renzismo?

In Italia siamo lontani dalla bigotta ipocrisia americana: Mussolini poté addossarsi in Parlamento la responsabilità politica dell’assassinio di Matteotti, il Parlamento votò che Ruby era la nipote di Mubarak e Renzi è ancora in Parlamento nonostante abbia silurato Letta dopo averlo rassicurato sul suo appoggio – “Enrico stai sereno” – ed essere stato bocciato al referendum costituzionale del 2016 “se perdo mi ritiro dalla politica”.

In Italia si depenalizza il falso in bilancio, si condonano abusi e cartelle esattoriali, si garantiscono (i colletti bianchi), ci si lamenta per le indagini della magistratura quando riguardano una persona di ceto borghese (senza integrare il personale giudiziario).

In Italia si promuovono o si lasciano al lavoro poliziotti e carabinieri implicati in indagini su fatti gravissimi (es. G8 di Genova, caso Cucchi, etc). In italia i responsabili della morte di giovani lavoratrici subiscono condanne irrisorie.

Gramsci aveva correttamente indicato nell’indifferenza il male dell’Italia, un paese pieno di Don Abbondio laici e no. Gramsci è morto senza sentire la sentenza per cui c’è stata si una trattativa con la mafia ma “a fin di bene”.

In un Paese siffatto i casi dei Matteotti, dei Gramsci, dei Libero Grassi, dei Falcone, dei Borsellino sembrano servire più come esempi da evitare che come modelli da seguire.

In questo scenario esempi come quello di Ilaria Cucchi sembrano alieni: “si è stata brava, ma io non avrei insistito tanto” e comunque queste persone vengono sfruttate,  diluite, dissipate in realtà tutte italiane, in normali come Sinistra Italiana (appunto) insieme ai Sumahoro.

Quindi abbiamo – è giusto dirlo – persone che denunciano: denunciano auto in doppia fila che gli impediscono di uscire dal parcheggio, o ex compagni stalker, denunciano abusi di datori di lavoro disonesti, o intimidazioni di funzionari concussori, denunciano minacce di estortori mafiosi e ndranghetisti,
Ma poi queste persone non ottengono giustizia e neanche sono protette dalle ritorsioni.

Hanno la colpa imperdonabile di essere vittime e di chiedere giustizia e protezione allo Stato.

Perché è lo Stato il grande malato italiano: è malato di debolezza fino all’esanimità. Esanime appunto, senza spirito né volontà. In Italia la trama delle relazioni superfamiliari si esplica in organizzazioni  che, quale che ne sia la natura teorica, tendono a configurarsi come clan, in senso antropologico: qualcosa di prepolitico in cui le relazioni personali e familiari superano in forza e funzione le relazioni formali dichiarate. E questo avviene nelle associazioni e nei sindacati, nei partiti e nelle comunità parrocchiali, nelle Massonerie e nell’Opus dei.

Prima i miei associati, però (per cerchi concentrici) dopo i miei amici, i miei parenti, la mia famiglia, i miei figli.

Questi non sono problemi che si risolvono facilmente o brevemente, ma, se individuati e riconosciuti, possono essere curati. E va fatto. Per rendere il nostro paese abitabile, anche per le vittime. Tutte.

Costruiamo insieme

Noi che viviamo del nostro lavoro Siamo sotto attacco da anni, da parte delle classi dirigenti: manager, grandi imprese ed intellettuali al seguito:

  • hanno reso precario il lavoro: ci pagano meno e hanno cancellato la maggior parte dei diritti;
  • hanno ridotto le pensioni e cominciano a pagarcele molto dopo;
  • hanno ridotto quantità e qualità dei lavori pubblici: crollano ponti e viadotti, le strade non sono manutenute, gli argini dei torrenti non sono controllati;
  • hanno ridotto quantità e qualità dei servizi sanitari: i medici di base hanno troppi assistiti e si trasformano sempre di più in impiegati amministrativi; hanno chiuso molti ospedali pubblici ed hanno esternalizzato molti servizi di diagnosi e di terapia; i posti di pronto soccorso sono sottodimensionati;
  • hanno ridotto quantità e qualità dei servizi scolastici: classi troppo numerose, troppo pochi insegnanti troppi dei quali precari ed hanno trasformato le scuole pubbliche in aziende, e le ospitano in locali fatiscenti e inadeguati;
  • non fanno funzionare gli uffici pubblici: gli impiegati vanno in pensione e non vengono sostituiti da giovani, in più i nuovi assunti non vengono né selezionati né formati; così i controlli non si possono fare e quando fatti sono fatti in modo sbilanciato e iniquo;
  • le università pubbliche sono impoverite e lasciate nelle mani di baroni che gestiscono l’ingresso dei giovani; moltissimi dei nostri migliori giovani ricercatori vanno all’estero;
  • aumentano le sovvenzioni per le imprese e poi tante di queste spostano gli impianti all’estero e chiudono gli stabilimenti, licenziando il personale;
  • aumentano la spesa militare e mandano armi in teatri di guerra, senza lavorare per la pace;
  • mantengono imposte e tasse ingiuste sui lavoratori e sui piccoli negozianti e riducono le imposte sui più ricchi e sulle grandi imprese;
  • ignorano le ingiustizie nel mondo in Palestina, Iran, Turchia, e ignorano gli attacchi alla libertà come a Cuba e in Venezuela. L’unico criterio di valutazione è la volontà degli USA, o in subordine, la volontà delle burocrazie Europee espressione delle cultura dell’arbitrio dei mercati.

Come si vede è difficile rispondere a tutti gli attacchi: ci sono arrivati da tutte le parti e su mille punti diversi.

Dobbiamo cambiare schema: ottenere una società armoniosa in cui tutti abbiano pari opportunità e in cui nessuno sia abbandonato alla miseria.

Per farlo c’è bisogno – adesso- di un’organizzazione che ci rappresenti e che funzioni. Non abbiamo bisogno di uomini o donne della provvidenza, abbiamo bisogno di coordinarci e di farci avanti tutte e tutti, mettendo da parte le differenze di metodo, per trovare modi di lotta che ci mettano d’accordo e focalizzando la nostra attenzione sulle priorità.

Non lasciamo che continuino a spogliarci di tutto.

Si. Serve un polo popolare!

C’è un pezzo di Italia che si è stancata di veder partire i figli in cerca di lavoro e di veder dare la colpa ad altri figli scappati dalla fame e dalla guerra che cercano riparo da noi.

C’è un pezzo di Italia che vorrebbe che le tasse fossero destinate ad ospedali e scuole che funzionano e non a cliniche e ad ambulatori privati.

C’è un pezzo d’Italia che vorrebbe controlli pubblici funzionanti sulle condizioni di lavoro e sulla sicurezza.

C’è un pezzo d’Italia stanca di aspettare un futuro migliore e che sta al lavoro fino a 67 anni, guardando i figli precari fino a 40 anni.

C’è un pezzo d’Italia stanca di vedere i milionari spiegare ai poveri che essere poveri è colpa dei poveri e chiedere di pagare sempre meno tasse.

Questa Italia l’hanno costruita Letta e Salvini Renzi e Meloni con Berlusconi a fare da ispiratore.
Ognuno ci ha messo il suo pezzettino.

Gli italiani stanno male e i furbacchioni fanno demagogia strumentalizzando le questioni come migrazioni, Unità Europea, debito pubblico ed evasione fiscale, usandole come clave anzichè curarle.

Intanto le tasse sui ricchi sono state abbassate e le tasse sui poveri sono state aumentate: giù le tasse di successione per i grandi patrimoni su le tasse sulla benzina che paghiamo tutti.

Il m5s ha ottenuto la realizzazione del primo aiuto importante per i poveri: il reddito di cittadinanza e si è intestato un’agenda sociale importante distante dall’agenda Draghi che gli altri partiti vogliono continuare a seguire e si è dichiarato contrario a spedire le armi un Ucraina e ad aumentare le spese militari.

Perché il m5s non si impegna in questa battaglia con coloro che queste priorità le hanno da sempre? Perché non si crea un polo popolare – veramente popolare – con Unione popolare? Che ci fanno Sinistra Italiana e i Verdi con Calenda ed i nuclearisti? Santoro e Montanari vogliono impegnarsi? Benissimo!

Il m5s rimetta in campo la volontà di partecipazione popolare che lo ha fatto nascere e partiamo.
Non è detto per nulla che debba vincere la Destra con le sue falsità.

Ma se lasciamo il PD a difendere l’esistente, quel pezzo d’Italia di cui parlavamo non andrà a votare e la colpa sarà di chi ha chiuso gli occhi ed ha chiesto ancora fiducia per l’ennesima fregatura!

la secessione dei ricchi.

Cosa hanno in comune #Zaia, #Fontana e #Bonaccini oltre ad essere presidenti di regione? Oltre ad avere iniziato il percorso verso il regionalismo differenziato nel 2018? La condivisione del DDL Gelmini ( si,ancora lei! Ex Ministra dell’Istruzione Pubblica, Università e Ricerca passata alla storia per la sua devastante “riforma”) approdata al Ministero per gli Affari Regionali e le Autonomie

Come dice un famoso spot pubblicitario: le piace vincere facile! Eh, si, perché Mariastella si è trovata già bello e pronto l’accordo del 2018 predisposto dall’allora Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, che prevedeva la distribuzione della spesa pubblica in base alla popolazione e al PIL e sottraeva alla potestà del Parlamento gli accordi Stato/Regioni; quello stesso accordo che aveva trovato condivisione tra i 3 presidenti richiamati in apertura.
5 articoli, tanti sono quelli del nuovo DDL, che ridisegneranno un’Italia spaccata in due con cittadini di serie A e cittadini di serie B ( indovinate la loro appartenenza… è facile!)

Secondo i dati forniti dall’Agenzia per la Coesione la spesa media pro-capite del Nord-ovest è pari a 19.291 euro, nel Nord-est 17.754 euro, al centro 20.365 euro, al sud 13.756 euro e nelle isole 15.004 euro (dati 2019)
Il Titolo V della Costituzione, dopo la riforma del 2001 – targata Ulivo – prevede la possibilità che le regioni a statuto ordinario chiedano potestà legislativa esclusiva su un numero impressionante di materie (23) fondamentali per la vita di cittadine e cittadini: istruzione, sanità, infrastrutture, beni culturali, ricerca, sicurezza sul lavoro, ambiente, solo per citarne alcune.

Se, come temiamo, il DDL andrà a buon fine, ogni regione avrà – ad esempio – i propri modelli di scuola di Sanità (in Lombardia con la privatizzazione avviata dall’ex “celeste” Formigoni e proseguita da Fontana siamo già in questa situazione) staccandosi di fatto dalle norme generali e dalla Costituzione che stabilisce l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini.

Ma ciò che più allarma e ci scandalizza è il contenuto dell’art. 4 “Le risorse finanziarie, umane e strumentali necessarie all’esercizio da parte della Regione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia sono definite dall’intesa di cui all’articolo 2 nei termini di spesa storica sostenuta dalle amministrazioni statali nella Regione per l’erogazione dei servizi pubblici corrispondenti alle funzioni conferite quale criterio da superare a regime con la determinazione dei costi, dei fabbisogni standard (…)”

Tradotto dall’impossibile italiano delle norme, vuol dire le regioni che più hanno speso avranno di più ; alle altre le briciole.

Alcuni esempi di cosa sia la “spesa storica” sulla base della quale saranno elargiti i fondi: Reggio Emilia ha 171mila abitanti contro i 180mila di Reggio Calabria; eppure, la prima spende 28 milioni in istruzione, mentre la seconda solo 9; a chi andranno i fondi in maniera maggiore? Non a chi ne avrebbe bisogno, ma a chi gode già di una situazione ottimale.

E il fatto che i LEP – Livelli Essenziali delle Prestazioni – non siano stati ancora definiti fa comprendere come mai i Presidenti delle Regioni del Sud si siano scagliati contro quelli del nord accusandoli di auspicare una “secessione dei ricchi”.

In sostanza, un conto sarebbe una riforma federalista che garantissse parità di accesso e costi, insomma, di diritti a tutti i servizi in ogni parte del nostro Paese, altra cosa è la secessione avviata dai tre Presidenti di Regione in un abbraccio “mortale” che rende evidente che, in fondo, non ci sono molte differenze tra destra e sinistra (o sedicente sinistra!).

Lettera dall’Italia

(Version française après le texte en italien)

Cari amici della Nuova Unione Popolare Ecologista e Sociale (NUPES),

anche da questo versante delle Alpi seguiamo con attenzione, interesse, e un pizzico di ammirazione la vostra azione durante questa campagna elettorale per le elezioni legislative francesi.

Immaginiamo senza difficoltà quanto il vostro percorso, ed in particolare quello di Jean-Luc Mélenchon, debba essere stato difficile. Rari sono i politici (e le persone in generale) che mettono a rischio la propria carriera ed il loro comfort per seguire le proprie convinzioni. È quello che Jean-Luc ha fatto, è quello che avete fatto, e anche da qui ve ne siamo riconoscenti.

Domenica, se i Francesi lo vorranno, si potrà porre fine (almeno da voi) alla più grande e tragica delle ipocrisie politiche contemporanee: che l’alternativa possa essere solo tra un vasto centro servo del mercato e una destra ormai racchiusa nel tribalismo nazionalista.

Grazie a voi, la Sinistra esiste. Una Sinistra che non è nostalgica, ma tenacemente proiettata verso il futuro. Una Sinistra che ha saputo accogliere e creare idee nuove. Che ha saputo riappropriarsi pienamente dei temi economici, dopo essere stata per oltre trent’anni succube del pensiero liberale, rimasto per troppo tempo pensiero unico. Una Sinistra che dopo anni di divisioni, ha saputo ritrovarsi (almeno in grande parte). Popolare, Ecologista, Sociale. 

Essendo cittadini di un altro Paese, domenica non potremo votare per voi. Eppure speriamo. Speriamo che i giovani, ed in particolare i giovani astensionisti, colgano questa occasione per cominciare, perlomeno, a fare un po’ di pulizia del vecchio mondo. Incrociamo le dita per Rachel, autentico simbolo di queste elezioni (donna, di colore, cameriera) che affronta il secondo turno in posizione favorevole, dopo avere combattuto con le sue colleghe per la loro dignità sul luogo di lavoro.

Rachel Keke (dal web)

Le incrociamo per Stéphane, il panettiere. E per tutti quelli, ricchi o poveri, donne o uomini, che hanno fatto lunghi studi oppure no, per tutti coloro che mettono la loro differenza (e la loro faccia) al servizio del movimento collettivo. Le incrociamo per la Sinistra, per l’Europa, ed anche per l’Italia.

Allora, di cuore, grazie. Grazie di avere dimostrato, in questi quasi quindici anni, che si può fare.

Che dove la paura divide gli individui, lì la speranza costruisce la forza collettiva.

Un altro mondo è possibile. In bocca al lupo!


Chers amis de la Nouvelle Union Populaire Ecologique et Sociale (NUPES),

Même de ce côté des Alpes nous suivons votre action avec attention, intérêt et une pincée d’admiration durant cette campagne électorale pour les élections législatives françaises.

On imagine sans peine à quel point votre parcours, et notamment celui de Jean-Luc Mélenchon, a dû être difficile. Rares sont les politiciens (et les gens en général) qui risquent leur carrière et leur confort pour suivre leurs convictions. C’est ce qu’a fait Jean-Luc, c’est ce que vous avez fait, et même d’ici nous vous sommes reconnaissants.

Dimanche, si les Français le souhaitent, il sera possible de mettre un terme (au moins par vous) à la plus grande et la plus tragique des hypocrisies politiques contemporaines : que l’alternative ne peut être autrement qu’entre un vaste centre asservi au marché et une droite enfermée dans le tribalisme nationaliste.

Grâce à vous, la Gauche existe. Une Gauche qui n’est pas nostalgique, mais projetée avec ténacité vers l’avenir. Une Gauche qui a su accueillir et créer de nouvelles idées. Laquelle a su se réapproprier pleinement des enjeux économiques, après avoir été assujettie à la pensée libérale, restée trop longtemps pensée unique, pendant plus de trente ans. Une gauche qui, après des années de divisions, a su se retrouver (du moins en grande partie). Populaire, Ecologique, Sociale.

En tant que citoyens d’un autre pays, nous ne pourrons pas voter pour vous dimanche. Pourtant, on espère. Nous espérons que les jeunes, et surtout les jeunes abstentionnistes, saisiront cette occasion pour commencer, au moins, à faire un peu de ménage dans l’ancien monde.

On croise les doigts pour Rachel, authentique symbole de ces élections qui affronte le second tour en position favorable, après s’être battue avec ses collègues pour leur dignité au travail. On les croise pour Stéphane, le boulanger. Et pour tous ceux, riches ou pauvres, femmes ou hommes, qui ont fait de longues études ou non, pour tous ceux qui mettent leur différence (et leur visage) au service du mouvement collectif.

On les croise pour la Gauche, pour l’Europe, et aussi pour l’Italie.

Alors, de tout cœur, merci. Merci d’avoir montré, au cours de ces presque quinze années, que cela pouvait se faire. Là où la peur divise les individus, l’espoir construit la force collective.

Bonne chance !