Imbelli, ribelli e CGIL.

“Imbelle e ribelle”: questi due termini non hanno in comune soltanto la radice “bellum” dal latino, che significa guerra, ma condividono anche il rifiuto della volontà della élite che controlla la comunità di appartenenza. Gli imbelli rifiutano di combattere le guerre imposte dalla leadership, mentre i ribelli mettono in discussione la leadership stessa, rifiutandone le prescrizioni. Tale rifiuto fa degli imbelli e dei ribelli il bersaglio della disapprovazione dei gruppi dirigenti e, tramite il lavoro degli intellettuali conformi, che ne sostengono le posizioni, l’obiettivo della disapprovazione della comunità.

In questi giorni, alcuni intellettuali hanno definito “imbelli” i giovani che rigettano l’idea della guerra, che rifiutano di condividere la visione geopolitica per cui l’attuale leadership europea sta preparando il riarmo dei Paesi.

È facile notare come gli stessi gruppi dirigenti considerino altrettanto inaccettabile l’atteggiamento di giovani che, come quelli di “Ultima Generazione”, per attirare un’attenzione altrimenti negata dai media, bloccano la circolazione stradale o lanciano vernice contro edifici pubblici e monumenti.

Il tratto comune, che porta alla condanna pubblica delle figure degli imbelli e dei ribelli ,sarebbe quindi il rifiuto della direzione indicata da chi guida la società, la divergenza rispetto alle prescrizioni indotte cui si accompagna un conflitto variamente intenso verso i prescrittori.

La società occidentale si definisce libera in quanto dovrebbe consentire il dissenso pacifico, senza censure o limitazioni che vadano oltre il mantenimento dell’ordine pubblico. Tuttavia, la protezione dell’ordine pubblico è soggetta a valutazioni variabili: esso viene interpretato in modi diversi non in rapporto alla forma in cui la manifestazione si esplica, al turbamento dell’ordine fisico, materiale; ma a seconda che il dissenso metta in discussione aspetti considerati marginali o scelte politiche che l’élite giudica irrinunciabili, fino ad individuare i dissenzienti come nemici pubblici.

Ciò pone il problema di come possa superarsi il conformismo quando le scelte della leadership si discostano significativamente dal sentire di gruppi ampi o, addirittura dal sentire della maggioranza dei cittadini.

Tale atteggiamento, la consapevole adozione di scelte che si riconoscono minoritarie nella società, è definito dagli intellettuali conformi come assunzione di responsabilità. Rimane da capire come tale responsabilità possa essere vagliata dal controllo popolare. Come tale controllo possa essere esercitato tempestivamente.

La Costituzione materiale della Prima Repubblica consentiva una forma di ribellione ordinata, lo sciopero generale, ma questo strumento è stato reso sempre meno praticabile e praticato sia per l’affievolimento della conflittualità di grandi organizzazioni sindacali, un po’ per la riduzione del consenso, un po’ per l’assorbimento di abitudini negoziali iperconcertative, sia da una serie di interventi legislativi che hanno limitato il diritto di sciopero fino a renderlo inefficace.

Il dissenso potrebbe e dovrebbe manifestarsi nelle urne elettorali, ma anche quest’arma è stata spuntata dall’adozione di sistemi elettorali variamente maggioritari, che costringono gli elettori a scegliere tra opzioni percepite come simili, fino a indurre tanti a disertare le elezioni.

Un altro strumento istituzionale di espressione del dissenso è il referendum abrogativo, che però funziona solo se promosso da grandi organizzazioni nazionali, altrimenti  segue un percorso impervio con destino incerto, sia nell’ottenimento della consultazione sia nella validazione col raggiungimento del quorum.

La maggioranza e le forze che, pur dall’opposizione, condividono scelte economiche di fondo, cercano di disinnescare il potenziale di cambiamento del referendum, creando le condizioni per non raggiungere il quorum.

Un esempio evidente è il trattamento riservato ai referendum sul lavoro promossi dalla CGIL. La scelta di fissare la data del referendum all’8-9 giugno, in concomitanza con il secondo turno delle elezioni amministrative, tradizionalmente meno partecipato, e il silenzio dei media di massa sui temi referendari sono, con tutta evidenza, applicazioni di questa strategia.

A questo punto, tutti coloro che credono nei valori di libertà dovrebbero sentire il dovere di pubblicizzare il referendum, i temi che affronta, i problemi che vuole risolvere e le date in cui si terrà, giacché il tentativo di vincere appoggiandosi all’astensione è intrinsecamente antidemocratico.

(Noi di 99percento faremo di tutto per arrivare ad una vittoria dei sì, sia per la dignità di chi lavora, sia per il valore della democrazia. Ecco il link:

https://www.cgil.it/referendum

Meglio manifestare contro il riarmo

Non so cosa riuscirà a ottenere la manifestazione promossa da Michele Serra in termini di affermazione dell’utilità dell’Unione Europea per la salvaguardia dei valori della democrazia liberale; è certo, però, che questa manifestazione ha colpito in pieno i tentativi di unione delle opposizioni di sinistra e progressista, con effetti insperati per il governo italiano.

In effetti, le bordate trumpiane contro la pluridecennale alleanza tra USA e UE sono state tanto gravi da generare una diffusa sensazione di sgomento: nel bene e nel male, l’unità atlantica tra americani ed europei era considerata un punto fermo da tutti e, detto per inciso, è stata una delle cause fondamentali della gestione della crisi ucraina, prima e dopo l’invasione russa.

Quindi, è comprensibile che un intellettuale schierato per i valori progressisti come Michele Serra abbia sentito, il 27 febbraio, l’impulso di chiedere una manifestazione di adesione ai valori dell’Europa.

Bisogna anche dire che questa Europa, però, ha con i valori che proclama un rapporto non privo di discontinuità e ambiguità: la volontà popolare, che è evidentemente alla base della democrazia, più volte è stata considerata superabile. Potrebbe valere per tutti l’esempio del trattamento riservato alla Grecia nel 2014. Il leader greco Tsipras aveva combattuto per un’altra Europa, ma questa, quella esistente, lo ha rimesso al suo posto, lui e il Paese che governava.

D’altro canto, anche i diritti umani sono visti dall’UE come valori di importanza variabile: se è vero che la UE ha trasformato la Turchia e il Mediterraneo in valli insuperabili, anche a costo della morte dei disgraziati che provano a varcarli per raggiungere il “paese dei diritti”. Così come il diritto internazionale è considerato superabile se l’infrattore è un importante alleato degli USA, come Netanyahu. Con buona pace delle decine di migliaia di vittime civili a Gaza.

Rimane comunque un’opinione comune, difficilmente contraddicibile, che i diritti civili e le libertà democratiche nell’Unione Europea finora siano trattati meglio di quanto avvenga, ad esempio, in Russia, in Ucraina o in Cina (per quanto riguarda gli USA, stiamo a vedere cosa succede).

Però, da un po’ di tempo, l’UE – da sempre attenta alle ragioni della grande impresa – sta considerando l’opzione di cominciare a passare dal consumo di burro al consumo di cannoni: non paga di fornire armamenti a paesi in guerra, come Rheinmetall ha fatto con l’Arabia Saudita, ha cominciato a fornire armamenti a paesi che rischiavano di entrare in guerra, come per esempio l’Ucraina.

Oggi siamo passati a prendere in considerazione l’opportunità di produrre armi per noi, per proteggerci dalla Russia, la quale pare abbia mostrato con l’Ucraina non solo una sorta di iperreattività, ma anche un’aggressività senza limiti, almeno secondo la grande stampa europea, che ha paventato la volontà di Putin di arrivare fino all’Atlantico.

Tale forsennata aggressività si ritiene vada rintuzzata con una deterrenza adeguata, costi quel che costi.

Si è quindi deciso di approfondire, intensificare e fondere in una le politiche estere dei paesi europei? No. Non si è neppure deciso di passare convintamente alla progettazione e poi alla realizzazione di un esercito unico europeo (cosa complicata e di dubbia efficacia in assenza di un’unica politica estera). Si è invece deciso di consentire a ogni Stato di aumentare la propria spesa per armamenti, senza passare prima attraverso un efficientamento dell’aspetto complessivo, opzione che avrebbe reso estremamente più efficace la spesa attuale.

Il bello è che, per l’irrobustimento delle forze armate europee, specialmente in fase iniziale, si utilizzerà l’apparato produttivo militare-industriale americano, senza tenere conto del nuovo atteggiamento di dichiarata avversione dell’amministrazione Trump nei confronti dell’Unione. Cioè, di fatto, di fronte a una chiusura degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Europea, l’Europa decide di aumentare gli acquisti presso le fabbriche statunitensi.

Il 4 marzo 2025, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato il piano Rearm EU di oltre 800 miliardi di euro, invitando i paesi membri a spendere fondi per le forniture militari senza metterli a conto dei deficit nazionali.

A questo punto, l’invito sentimentale di Michele Serra del 27 marzo, a levare alte le bandiere dell’UE, viene messo alla prova nel suo senso più profondo, giacché l’Unione Europea dei diritti e della pace si mostra con ancor maggiore evidenza come un’organizzazione in cui l’apparato militare-industriale ha un peso rilevante, se non decisivo. La domanda sorge spontanea: questa desiderata manifestazione ha ancora senso? Secondo molti a sinistra, no. E a dirla tutta, anche secondo molti che non sono di sinistra, atteso che, insieme a coloro che andranno a manifestare con la bandiera della pace, si troveranno altri a manifestare con la bandiera europea in una mano e la bandiera ucraina o quella georgiana nell’altra. Quindi, insieme, pacifisti e neo-imperialisti che non ce l’hanno fatta e sono in cerca di una rivincita.

Meglio una manifestazione che esprima in modo netto la voglia di pace dei cittadini europei e il rifiuto degli armamenti.

Il patriarca sei tu?

Il sistema di potere patriarcale si fonda su un’ideologia e ogni ideologia è capace di essere assorbita sia da coloro che ne traggono vantaggio sia da coloro che condanna all’assoggettamento.

Uno dei modi di diffusione del patriarcato, infatti, è il definire un’etica per le persone e in questa etica definire i modi i comportamenti gli atteggiamenti le attitudini corretti per chi aderisce all’ideologia.

Tali schemi attitudinali ovviamente sono diversi da cultura, a cultura, giacché moltissime culture sono intrise di elementi patriarcali. Ma tutte le culture sono accomunate dal distinguere in modo netto ciò che deve fare un uomo e ciò che deve fare una donna. Il ruolo sociale e familiare di una e quelli dell’altro.

L’adesione all’ideologia non comporta necessariamente la consapevolezza, anzi: nella norma l’adesione è tacita e vissuta come naturale adattamento ad una realtà di fatto.

È questa adesione inconsapevole che spiega come tante persone sinceramente progressiste, abbiano idee così intrinsecamente patriarcali.