La redistribuzione della ricchezza non è un’eresia.

Produzione e consumo costituiscono una coppia inscindibile: il consumo di beni, servizi, energia, attenzione, accompagna tutte le fasi della vita in genere e di quella umana in particolare.

Ogni persona consuma e ogni gruppo umano famiglia, tribù, civiltà, società impiega al proprio interno soggetti che oltre a consumare producono. Infatti nelle collettività ci sono soggetti che consumano e producono e soggetti che consumano senza produrre. 

Se  guardiamo alla nostra società, rileviamo che noi stessi riteniamo normale che alcune persone si limitino a consumare senza produrre: due esempi immediati sono i bambini e gli anziani. Il confine segnato dalle età tra consumatori puri e produttori – consumatori non è netto: alla fine ai bambini più grandi e consapevoli e agli anziani ancora attivi chiediamo delle forme di produzione sotto forma di collaborazione, di produzione di servizi sostitutiva rispetto a servizi che dovremmo ottenere verso un corrispettivo: immagino l’acquisto di beni di consumo familiare da parte del ragazzino e la vigilanza sui  bambini da parte dei nonni.

La più importante parte della produzione è comunque quella collegata ad attività di tipo professionale, svolta verso un corrispettivo: il lavoro; lavoro che la nostra Costituzione mette a fondamento della Repubblica.

Nella società occidentale, dopo tante lotte e aggiustamenti e al di là delle differenze di classe, l’attività lavorativa inizia alla fine dell’adolescenza e termina all’età in cui di norma l’efficienza fisica si riduce sotto una certa soglia.

Questo tipo di organizzazione ha generato una società in cui le persone lavorano per una porzione della loro vita lunga poco più di quarant’anni, a meno di arrivare prima ad un’età in cui si presuppone una riduzione significativa dell’ efficienza fisica.

Il sistema pensionistico negli ultimi quattro decenni è diventato sempre più avaro a causa  della sequenza di riforme previdenziali restrittive portate avanti dal centrodestra e dal centro-sinistra. Le motivazioni che hanno spinto verso questi cambiamenti sono riconducibili a due grandi gruppi di argomentazioni: da un canto la volontà di ridurre la spesa pubblica, dall’altro   le maggiori aspettative di spesa derivanti dal miglioramento dell’aspettativa di vita della popolazione.

Di fatto – tranne collocamenti a riposo legati a ristrutturazioni produttive e finalizzati a una riduzione dei costi per le imprese – si è proceduto nel tempo ad aumentare l’età di pensionamento dei lavoratori dipendenti.

Ciò ha comportato nel settore privato un invecchiamento del personale stabile, che fruisce di un quadro normativo più protettivo (che comunque si è provato a espellere dai i processi produttivi con l’Impiego di diversi ammortizzatori sociali) dall’altra parte dalla precarizzazione dei nuovi assunti, effettuata con l’impiego dei nuovi istituti contrattuali cosiddetti atipici. 

Nel settore pubblico invece all’invecchiamento di lavoratori assunti nel periodo antecedente le riforme restrittive di bilancio si è associata la drastica riduzione delle assunzioni causata dal blocco del turnover, con conseguente drastico invecchiamento della forza lavoro stabile.

In sintesi ciò che è successo negli ultimi decenni è stato l’aumento sia dell’età dell’ingresso nel mercato del lavoro, sia l’età di uscita. Di conseguenza si è innalzata l’età della parte  di popolazione che lavora , incrementando il numero dei giovani inattivi, con l’intento di ridurre la porzione di popolazione  anziana inattiva.

Il motivo è evidente: i giovani inattivi sono sostentati dalle famiglie, mentre gli anziani inattivi sono a carico della  previdenza pubblica. In sostanza anche qui ci si è mossi nella direzione di privatizzare i costi sociali.

L’operazione è motivata con l’aumento del numero degli anziani, associato alla riduzione del numero dei giovani attivi. 

In effetti sarebbe anche vero che nelle nostre società il numero dei giovani tende a diminuire, però nelle argomentazioni di chi vuole aumentare l’età per i pensionamenti si ignora che la produttività di ogni lavoratore di oggi è un  multiplo della produttività dei lavoratori di un tempo, anzi  il fabbisogno di lavoro umano per effetto dell’Innovazione tecnologica si è ridotto drasticamente ed questo trend continua in modo drammatico con l’automazione e con l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale.

Le precedenti considerazioni, sia l’invecchiamento della popolazione, sia la riduzione del fabbisogno di lavoro nei processi produttivi indotto dalle innovazioni tecnologiche, indicherebbero  che  per il sostegno della terza età si  stia verificando il superamento dell’efficacia redistributiva degli accantonamenti previdenziali. Ne frattempo la capacità produttiva globale continua a crescere, trovando limiti solo nella sostenibilità ambientale e nei conflitti su scala globale.

In questo contesto si scorge l’opportunità di riflettere sulle modalità di redistribuzione del flusso di  ricchezza prodotta, e sulla questione della progressività del prelievo fiscale. L’espressione  “produzione di merci a mezzo di merci”, felice espressione usata  da Pietro  Sraffa come titolo della sua opera più nota, evidenzia la capacità del capitale di incrementare la produttività dei processi.

Il fatto è che gli capitale sì appropria in toto degli incrementi produttttivi e in assenza di meccanismi di redistribuzione fiscale ciò ha indotto una crescita delle disuguaglianze che si avvicina sempre più al livello dei sistemi di produzione conosciuti alla fine dell’Ottocento.

Oltretutto livelli di disuguaglianza eccessivamente ampi inducono evidenti disfunzioni nei meccanismi dei sistemi democratici, i quali per funzionare bene hanno bisogno che i cittadini vivano in condizioni   non solo formali di limitazione delle diseguaglianze. È più facile condizionare le preferenze politiche di una persona in condizioni di bisogno, così come è intuitivo che grandi disponibilità economiche possano essere usate per procurarsi i mezzi di creazione del consenso. Gli esempi di Berlusconi e di Trump sono lì a dimostrarlo.

Invece si è imposta una visione collettiva per cui chi è ricco non va disturbato, perché merita la sua posizione per l’impegno profuso da lui o dai suoi danti causa, mentre chi è povero merita il proprio destino, poiché non è stato abbastanza volenteroso da salire i gradini della scala socioeconomica. 

Il fatto è che sostituire le contribuzioni previdenziali con un’imposizione fiscale orientata verso le più alte fasce di reddito costituirebbe un incentivo importante all’impiego di lavoro, eliminando il cosiddetto cuneo fiscale e costituirebbe anche una riduzione dell’imposizione sui lavoratori, con un importante aumento del reddito disponibile per i consumi.

Il problema più complicato rimane andare controcorrente per  convincere un numero adeguato di persone di quella che per la cultura oggi egemonica è una vera eresia: redistribuire la ricchezza. Anche perché l’egemonia culturale dell’attuale accezione del capitalismo è tanto forte da rendere complicato anche solo  immaginare un’organizzazione della società che ne curi le criticità.

Ma alla fine a chi interessa la sicurezza sul lavoro?



Avere interesse per qualcosa e interessarsene, averne cura, sono due questioni diverse: la differenza tra l’una e l’altra è misurata dalla consapevolezza dell’importanza della questione per sé.

Purtroppo non pare esserci alcuna consapevolezza dell’importanza della sicurezza sul lavoro.

Non ne sono consapevoli gli imprenditori, altrimenti non spingerebbero i lavoratori a fare prima a rischio dell’incolumità (vedi Brandizzo), non toglierebbero i presidi di sicurezza dai macchinari per ridurre i tempi di lavorazione (ricordate Luana D’Orazio?) e cosi via.

Non ne sembrano consapevoli i lavoratori, che sanno di dover mettere imbragatura e casco mentre stanno sui ponteggi, ma spesso non li mettono, sanno che è obbligatorio essere autorizzati prima di salire sui binari per la manutenzione, ma pur di lavorare accettano di cominciare il lavoro prima che arrivi l’autorizzazione.

Non interessa agli uffici deputati alle ispezioni: se non sono destinati ispettori per i controlli non è certo colpa loro: si controlla ciò che si può, consapevoli che l’incidente può succedere ovunque ed in ogni momento, ma la responsabilità non può ascriversi ad un ufficio svuotato di risorse e senza mezzi.

Non interessa al politico, disposto ad approvare una legge da rivendicare in TV, ma indisponibile a perdere i voti delle imprese incrementando realmente i controlli per fare applicare le leggi. Né vuol perdere i voti dei lavoratori lasciati a casa da un’azienda che chiude, non accettando la riduzione dei margini di profitto.

Questo disinteresse per la sicurezza è solo in parte una scommessa sulla propria fortuna; è più uno dei sintomi del diffuso schiacciamento sul presente: qlla domanda “e se domani..?” “Spesso si risponde “ci penserò domani”.

Ma allora la battaglia per la sicurezza va combattuta in sede formativa. Non solo durante l’addestramento sul lavoro, o nella formazione continua. Deve iniziarsi a scuola. Da bambini.

Anche perché la cultura della sicurezza non riguarda solo la sicurezza sul lavoro, ma anche la sicurezza stradale, la sicurezza dei consumatori e questo sforzo va fatto dallo Stato, perché la società di oggi vive di effimero. Altro che sicurezza!

Se ci sarà consapevolezza , dell’importanza della sicurezza, allora cambierà tutto l’approccio.

Ma serve una forza politica che si faccia carico di questo bisogno di consapevolezza, perché, come si diceva sopra, al momento pare che in giro non interessi a nessuno. Al di là dell’ipocrisia delle dichiarazioni.

Riformiamo le pensioni!

l tema delle pensioni, già in discussione da decenni e oggetto di ulteriori aggiustamenti nelle intenzioni del Governo è uno di quei temi chiave che modificano profondamente il funzionamento della società. Le prime riforme delle pensioni andavano a correggere situazioni di squilibrio evidente che avevano consentito ad alcuni lavoratori e lavoratrici di andare in pensione in un’età di grande vigore e di piena capacità lavorativa, tanto che le stesse persone spesso andavano a svolgere altri lavori in autonomia, sommando i nuovi redditi alla piccola rendita acquisita con la baby pensione.

Le ulteriori restrizioni del sistema previdenziale, anche quelle attualmente in discussione, cercano fondamento sull’innalzamento delle aspettative di vita degli italiani, che, sommato alla drastica riduzione delle nascite, stanno comportando un progressivo invecchiamento della popolazione.

Il ragionamento suona pressappoco così: giacché le fasce d’età attualmente in produzione sostengono numeri di persone pensionate molto superiori rispetto a quanto avveniva in passato e poiché il rapporto tra persone produttrici e persone in pensione è destinato a ridursi ulteriormente e progressivamente nel futuro, bisognerebbe porre rimedio, aumentando l’età di pensionamento, per ridurre il numero degli anni in cui la persona vivrà di pensione e per ridurre il peso dei pensionati sui produttori.

Il ragionamento che ho provato a descrivere appare convincente, ma parte da un presupposto dato per scontato: l’invarianza della capacità produttiva delle persone nel tempo, anche in tempi lunghissimi: come se un lavoratore che operava nel 1970 producesse quanto un lavoratore che opera nel 2020. Solo che questa equivalenza non è vera: chi guardi al lavoro negli uffici o nelle fabbriche, nella logistica o nelle vendite si rende conto facilmente di una realtà assolutamente vistosa: grazie alla innovazione tecnologica un lavoratore dei nostri tempi produce una quantità di beni o di servizi enormemente superiore a quella prodotta da un lavoratore di cinquanta anni fa.

Oggi a mandare un messaggio a migliaia di clienti basta il tempo di scrivere ed inviare un messaggio di posta elettronica. Lavoro che può fare una sola persona (due se il lavoro viene supervisionato). Bastano un paio d’ore di lavoro per scrivere il messaggio, se il messaggio è articolato e importante, e bastano pochi secondi per inviarlo.

Negli anni settanta bisognava stampare le lettere, imbustarle e portarle nel luogo di spedizione. Lì sarebbero state spedite nei luoghi di destinazione, dove sarebbero state distribuite. In caso di migliaia di destinatari si può parlare del lavoro di decine di persone , in qualche caso di centinaia.

I miei coetanei ricorderanno che il modello di vendita per corrispondenza una volta erano i cataloghi “Vestro” e “Postal Market” , oggi sostituiti da “Amazon” o “Alibaba” (per i quali oggi appare primitivo anche il sistema di ordine tramite posta elettronica).

Le fabbriche di Fiat ed Alfa Romeo degli anni Settanta con gli attuali impianti di Melfi non hanno confronti, se non, forse, nel trattamento degli operai. Quante automobili uscivano al giorno da una catena di montaggio e quante ne escono oggi? Impiegando quante persone?

Se quanto ho descritto è vero, allora la questione va posta diversamente: oggi e con l’attuale livello di strumentazione tecnologica, il sistema economico quante persone inattive può mantenere? E che età devono avere queste persone? La domanda relativa all’età non deve stupire: Oggi il sistema mantiene in produzione una parte delle persone – gli adulti occupati – mentre mantiene inattive altre persone: minori in età prescolare e scolare, inoccupati, disoccupati, pensionati. Inoltre il progresso delle tecniche induce a ritenere che il numero degli occupati potrebbe ulteriormente ridursi. I processi di automazione nelle fabbriche e l’auspicato impiego massivo della rete Internet nella gestione delle relazioni con le pubbliche amministrazioni, come è già avvenuto con le banche e altre aziende produttrici di servizi, va in quella direzione: ci sarà meno bisogno di lavoro umano.

Che le persone siano educate e formate nei primi anni della vita è cosa utile per loro e necessaria per la società, che con la scuola può dotarsi di cittadini che condividono norme di comportamento condivise (l’esperienza ci insegna che non è sempre vero che l’educazione familiare consegua modelli di relazione sociale desiderabili) quindi è assolutamente opportuno che la prima gioventù sia spesa nella formazione delle persone, che incidentalmente, se meglio formate, saranno anche produttori più capaci e consumatori più educati. Si potrebbe quindi immaginare di far studiare per più tempo i ragazzi e le ragazze.

Ma ad un certo punto sarebbe bene per la società (oltre che per loro) che i ragazzi potessero effettivamente lavorare e guadagnare in modo da affrancarsi dalle famiglie di origine e magari avviare una nuova famiglia con partner e figli. Ad oggi invece abbiamo percentuali inaudite di disoccupazione giovanile: tanti giovani adulti non hanno occupazione e se ce l’hanno si tratta di occupazione precaria, a volte estremamente precaria e spessissimo malpagata. Tantissimi giovani sono imprigionati in quella categoria dei working poors (lavoratori poveri) e non possono rendersi autonomi dalle famiglie di origine. Questa situazione ovviamente deprime la demografia del paese.

A questo punto sorge spontanea alcune domande: a chi giova mantenere inattive o sottoccupate persone di venti o trenta, o quarant’anni e, insieme, mantenere al lavoro persone ultrasessantacinquenni, fisicamente meno efficienti, meno elastiche nell’acquisizione di nuove modalità operative e, spesso, meno motivate? Per quanto tempo potranno protrarsi politiche che comprimono progressivamente la natalità, impedendo la formazione di nuove giovani famiglie? Dobbiamo immaginare un futuro in cui si entra nel mondo del lavoro a quarant’anni e se ne esce a settanta? Settantacinque anni?

Solo che per muoversi nella direzione di far entrare “in produzione” gli adulti giovani e farne uscire gli adulti anziani, bisognerebbe incrementare la spesa pubblica e coprirla con un incremento del volume delle entrate tributarie. Ma il carico dei tributi sui cittadini è già molto lalto. Per aumentare le entrate tributarie, senza rendere eccessivo il carico sui contribuenti, sarebbero indispensabili alcune riforme molto profonde: una riforma della fiscalità orientata ai redditi delle persone fisiche, seriamente progressiva ed orientata ad una lotta all’evasione seria, utilizzando efficacemente l’incrocio dei dati già in possesso delle amministrazioni pubbliche; una effettiva semplificazione delle norme fiscali, per evitare dinamiche elusive e una riforma della contabilità della redistribuzione. Trovare cioè una nuova organizzazione pubblica della previdenza che porti alla trasformazione dell’INPS da ente autonomo a ufficio statale e che affidi la copertura delle pensioni alla fiscalità generale. Direttamente sul bilancio dello Stato, eliminando contemporaneamente i contributi previdenziali così come li conosciamo oggi e riducendo il carico fiscale sul lavoro.

Così si interromperebbe la connessione tra lavoratori finanziatori del sistema previdenziale e pensionati fruitori, facendo entrare nel ruolo di finanziatori del sistema pensionistico i percettori dei redditi più alti, che tra evasione, ed elusione fiscale – anche promossa dalle riforme e dai condoni berlusconiani e leghisti – da tempo si sono visti ridurre l’imposizione fiscale.

Il processo di riforma che si ipotizza dovrebbe mantenere tutta l’attenzione necessaria alla tenuta dei saldi di finanza pubblica, ma – salvaguardando i redditi medi e bassi – dovrebbe ricercare nelle maggiori entrate tributarie, più equamente distribuite, il suo riequilibrio.

Per chiudere un ultimo accenno alla lotta all’evasione: non si capisce perché non si indichino degli obiettivi quantitativi nel recupero dell’imponibile fiscale, cui legare benefiche riduzioni di aliquote per tutti i contribuenti. “Pagare meno pagare tutti smetterà di essere uno slogan quando sarà chiaro quanto si pagherà di meno quando una quantità predefinita di evasione fiscale sarà riportata nella legalità.

Il dubbio è che nell’eterno corteggiamento agli elettori più scaltri, la lotta all’evasione sia un pio desiderio da raccontarsi a mo’ di favola ai bambini per le sere invernali.

Per lavorare sicuri

Al 31 Dicembre 2020 sono state segnalate all’INAIL 554.340 denunce d’infortunio, di cui 1270 con esito mortale
Nei primi tre mesi di quest’anno le denunce di incidenti mortali sono state 185, 19 in più rispetto alle 166 denunce registrate nel primo trimestre del 2020. Un incremento maggiore dell’11,4%.

Con questi numeri non possiamo parlare di disgrazia, di casualità. Semplicemente si è affermato un inconfessato modo di vedere. Una cultura che considera accettabile per il nostro sistema produttivo che ogni tanto qualcuno ci lasci la pelle.

La CGIL ha presentato un progetto di legge di iniziativa popolare: “Carta dei Diritti Universali del Lavoro ovvero nuovo Statuto delle Lavoratrici e dei Lavoratori” e anche la politica non è stata immobile: ha prodotto importanti leggi sulla sicurezza sul lavoro. Intanto si continua a morire. Meno durante le fasi peggiori della pandemia, ma adesso, con la ripresa di più intensi ritmi di produzione, gli incidenti sono tornati ad aumentare. Cosa si può fare?

Di certo aumentare i controlli. Sono insufficienti da tanto. Migliaia di ispettori sono andati in pensione negli anni e non sono stati sostituiti. Durante gli anni il sistema pubblico dei controlli è stato depauperato da una politica più attenta alla spesa pubblica che ai servizi pubblici. Oltretutto la funzione pubblica di controllo delle attività produttive non è particolarmente apprezzata dal mondo delle imprese, ancor di più perché, insufficiente per carenza di mezzi e quindi ineguale, non riesce certo a controllare tutto e tutti.

D’altronde il rispetto delle leggi non può essere affidato solo ai controlli d’ufficio. Serve una cultura diffusa della sicurezza presso imprese e lavoratori e ai lavoratori serve la garanzia che la denuncia, ma già una richiesta di rispetto del diritto alla sicurezza, non comporti il licenziamento o la mancata chiamata.

Ma il lavoro oggi è quasi tutto precario (quando non più o meno in nero) e qui diventa complicato: come fa un lavoratore che deve “ringraziare per la possibilità di lavorare” a chiedere che un macchinario abbia tutte le protezioni previste dalla legge?

La difesa di alcuni datori di lavoro nelle microimprese, quando dicono che loro lavorano nelle stesse condizioni dei propri dipendenti è debole, inconsistente. Loro possono scegliere. I dipendenti?

I controlli sono quindi necessari, ma allo stato insufficienti. Lo ha riconosciuto il presidente del consiglio Mario Draghi che si è impegnato ad assumere 1084 nuovi ispettori del lavoro. Sempre troppo pochi in rapporto a quelli andati in pensione negli anni scorsi, ma già un primo passo. Basta?

Probabilmente no. Rimane indispensabile il rispetto per le persone che lavorano, per gli altri e per sé stessi. È necessario creare – oramai quasi dal nulla – una cultura dei diritti delle persone sul lavoro, una cultura del rispetto delle persone e dei loro corpi, perché a ben vedere il problema serio è che il culto dei beni, della ricchezza e degli utili delle imprese, ha superato (e pure di tanto) il culto della persona. Come si spiegherebbe altrimenti la mancanza di attenzione non solo per chi lavora, ma anche per chi consuma. Su questo versante, citiamo solo le polemiche sulla leggibilità delle etichette dei prodotti di largo consumo.

Ma se conveniamo sulla necessità di una spinta forte della cultura diffusa del rispetto delle persone e quindi della sicurezza e della qualità del lavoro e dei prodotti. Chi dovrebbe farsene promotore? Quali agenzie dovrebbero produrre questo cambiamento?

Dovrebbe farsene promotrice la Repubblica e quali agenzie più efficaci della scuola e della televisione? La scuola si è già caricata della diffusione della educazione civica, che da poco ha ricevuto una spinta importante. La televisione è potente, potentissima presso tutti i segmenti sociali a culturali.

Percorsi possibili ce ne sono. Se ne possono immaginare altri.

C’è La volontà?