Alzare la testa e partecipare.

Non ci sono dubbi che la Meloni e Fratelli d’Italia siano esponenti di una politica tossica, ma non sono loro ad avere portato la democrazia in questo stato di prostrazione.

La gente non va più a votare e chi ci va lo fa come atto di civismo estremo, con pertinacia, sperando poco o nulla in un auspicabile cambiamento, perché a fronte di una diffusa sofferenza sociale e politica la maggior parte delle proposte si limita a suggerire aggiustamenti marginali portati avanti da personaggi variamente improbabili.

Come definire altrimenti personalità politiche presenti nel cosiddetto campo largo, che si mettono in evidenza per la difesa degli equilibri sociali e politici esistenti, continuando a rigettare come irrealizzabile ogni tentativo di dare risposte efficaci ai reali problemi delle persone (salari, sanita, pensioni)?

Questo stato di cose ha generato un pesante cinismo che a vari gradi ha impregnato il corpo elettorale, trasformando le elezioni in un confronto tra schieramenti più o meno clientelari e tutti con atteggiamenti di sorda tifoseria.

Alla tradizionale astensione strutturale, accresciuta dal disimpegno sociale delle forze politiche e dall’infiacchimento progressivo della scuola pubblica, che ha generato cittadini senza cultura politica, si è aggiunta una crescente astensione da scoramento, adottata da persone che hanno votato per tutta una vita e che adesso non trovano una proposta politica che sia insieme credibile e interessante.

Il fatto è che i partiti che hanno governato hanno accettato di agire la politica all’interno di un recinto fatto da compatibilità tutte interne alla cultura neoliberista e nel contempo hanno secreto una sorta di tossina contro ogni cultura politica divergente, per giustificare la propria scelta.
Alcune forze progressiste già radicali, hanno di fatto accettato una sorta di marginalità e hanno provato a ricavarsi una ragion d’essere dalla difesa dei diritti civili, accettabili in un quadro liberale.

Probabilmente questo stato di cose è stato, anche, l’effetto di una stabilizzazione forzata del quadro politico derivante dalla partecipazione più o meno coattiva all’alleanza guidata dagli Stati Uniti, fondati sul liberalismo di destra, comunque rimane il dato di una società sempre più diseguale, squilibrata al punto che le ingiustizie sono diventate tanto profonde, evidenti e insostenibili da far perdere dapprima credibilità e poi sostanza alla eguaglianza formale delle persone di fronte alla legge e quindi allo stesso fondamento della democrazia.

In questo contesto la nascita, la crescita e adesso la prosperità dei nazionalismi parafascisti costituisce una sorta di risultato ineludibile e per questo la tossicità di partiti come Fratelli d’Italia non si manifesta come capacità di far ammalare o peggio distruggere i sistemi democratici, ma come capacità di nutrirsi delle democrazie in decomposizione con un attitudine, appunto, saprofita.

La destinazione desiderabile, per porre fine all’attuale stato di cose, è un governo alternativo della società e non un’alternanza di soggetti che governino alla luce dello stesso quadro ideologico.

Questa è la scommessa che la sinistra, o più genericamente la “parte popolare” , ha di fronte in tutto il mondo.

E sì. Dobbiamo guardare con gioia a quello che hanno fatto i Democratici americani a New York, ma dobbiamo avere chiaro come interpretare il ruolo della sinistra qui, a casa nostra, partendo dal fatto che a sinistra non si deve fare qualcosa “per il popolo” ma si deve fare qualcosa ” insieme al popolo”.

Alla faccia di coloro che usano la parola populista per infiacchire la democrazia: se il popolo non ha – reale – potere di decisione e di controllo sulla politica, la democrazia non esiste.

La questione è come indurre la gente comune a partecipare alla politica. L’aggressività della classe politica nel difendere il proprio status allontana le persone che non hanno mai fatto politica dalla partecipazione diretta. Troppo difficile appare riuscire a introdurre novità.

Comunque non ha senso aspettare che qualche leader illuminato ci guidi fuori dalla situazione attuale, anche perché, in assenza di una vigilanza sociale diffusa, il sistema politico economico mediatico tende ad assimilare a sé ogni singolo che si metta in evidenza nel tentativo di indurre delle modifiche significative. Dobbiamo alzare la testa e partecipare, partendo prima di tutto dal cercar di cambiare la cultura di feroce individualismo diffusa tra le persone. È un processo laborioso, ma possibile.

Nani (e ballerine) sulle spalle di giganti.

In Italia abbiamo avuto statisti. Alcuni di loro avevano anche cura del popolo italiano e tra questi ultimi me ne sovvengono due che non sono più tra noi: Enrico Berlinguer e Aldo Moro. Ne abbiamo avuti anche altri, successivamente, oggi vivi e vegeti, ma questi personaggi sono ai margini dell’agone politico. È gente che giocava un altro gioco, oggi in disuso. Cercavano di modificare la realtà, consapevoli della difficoltà di realizzare i loro progetti e per questo erano misurati nelle scelte e nelle dichiarazioni, usando una certa prudenza nel raccogliere il consenso, peraltro meno – assai meno – mobile di adesso.Quei tempi sono lontani. Oggi nel rapporto con la società civile la politica è agita molto più come gestione dello stato di fatto: per gran parte degli attori ha perso l’ambizione di cambiare i rapporti di forza esistenti nella società, e si muove per occupare posti di guida senza però ambire a decidere la destinazione.A questo gioco l’unico precetto è vincere o, alla peggio, continuare a giocare. Ogni altra prescrizione è tattica. Per i più capaci è strategica: l’etica è un’immagine ostenta per puro calcolo tattico. A gente così sarebbe ingenuo chiedere sincerità. È invece lecito aspettarsi furbizia, al più arguzia.E arguto è stato l’annuncio di Meloni di una mozione di maggioranza in Parlamento, a chiedere il riconoscimento dello Stato di Palestina a condizione però che gli ostaggi siano liberati e che Hamas sia estromessa dal “governo” di Gaza. Nello stato attuale delle cose si tratta di due condiciones diabolicae, per dirla coi giuristi: due condizioni impossibili da realizzare e sicuramente da determinare. In pratica la nostra Presidente del Consiglio ha manifestato – usando altre parole – gli stessi propositi di Netanyahu: prima bisogna sconfiggere Hamas e (of course) liberare gli ostaggi, un pio desiderio tanto sbandierato quanto non realmente sentito, quest’ultimo, visto che Netanyahu non si è proprio sforzato troppo di riportare a casa quelle persone (e le loro famiglie se ne sono accorte). In pratica la nostra premier ha buttato la palla nel campo avverso, a vantaggio della stampa amica, che potrà accusare l’opposizione che chiede il riconoscimento della Palestina, di non esecrare Hamas a sufficienza.Meno spendibile la richiesta del nostro Ministro degli Esteri ad Israele: di fonte alla prosecuzione degli attacchi contro la Global Sumud Flotilla, Tajani avrebbe chiesto: “Israele tuteli chi è a bordo” confermando che riconosce in Israele la provenienza degli attacchi, senza condannare quello che è a tutti gli effetti un atto di pirateria ma limitandosi ad una richiesta/implorazione di salvaguardare la vita dei naviganti. Se dovesse morire qualcuno, il Governo dovrebbe districarsi in un ginepraio, considerato, ripetiamo, che gli attacchi alla Flotilla sono patentemente illegali per il diritto internazionale.Però alla fine, a parte l’amaro in bocca per essere governati da codesta gente senza qualità – o, se si preferisce, con queste qualità, sale su una domanda: ma così non risulta evidente una forma di complicità del governo Meloni con l’attività del governo israeliano, che ormai in tanti definiscono genocidio?

Giù le mani dalla Costituzione!

L’articolo 138 della nostra Costituzione ne prevede e regolamenta la modifica: è possibile modificare la Costituzione purché la legge di revisione sia votata  col testo identico per due volte da ognuna delle due Camere, con un intervallo di almeno tre mesi da una votazione all’altra e con la maggioranza assoluta dei componenti. Inoltre se alla seconda votazione non si raggiunge i due terzi dei componenti di una delle Camere è possibile chiedere il referendum costituzionale confermativo, per il quale non è necessario il quorum del 50% del corpo elettorale (necessario invece per il referendum abrogativo delle leggi ordinarie)

Questa procedura è stata definita dai Costituenti per rendere modificabile la Costituzione ancorché con una procedura aggravata che la rende “rigida”.

Il problema è che questo sistema non è funzionale ad un cambiamento profondo della Costituzione, ma solo a piccole correzioni.

Male fece il Parlamento nel 2001 quando stravolse il titolo V, cambiando profondamente il rapporto tra lo Stato ed il sistema delle autonomie.

Il fatto è che la Costituzione del ’48 cercò di rappresentare in modo fedele e puntuale la complessità e delle culture politiche italiane, tenendo conto della frammentarietà sociale e territoriale del popolo italiano. L’idea era quella di rappresentare puntualmente la società senza consentire ad un’organizzazione di dominare il sistema ammutolendo le componenti che si opponevano. Da quel sistema partì la Prima repubblica, che in un sistema di negoziazione continua riuscì a portare l’Italia prima a rialzarsi dalla guerra e poi alla condizione di partecipante al consesso dei sette grandi del pianeta.

Il pezzo di società che i costituenti avevano sconfitto, i fascisti e quella parte di italiani che con la loro indifferenza avevano consentito il fascismo, pur sconfitta permaneva viva e vegeta, anche grazie alla profonda inimicizia che gli Stati Uniti nutrivano e nutrono per i comunisti e i socialisti. Inimicizia che aveva fatto sì che gli Americani decidessero di assoldare nella loro opera di condizionamento del nostro Paese prima gli esponenti dello stato fascista che apparivano recuperabili (e desiderosi di essere recuperati), poi ragazzi cresciuti nel mito del Fascismo, disposti a “difendere il paese dal Comunismo” raccolti nella struttura ” stay behind” resa pubblica ai tempi della presidenza di Francesco Cossiga.

Questi militanti politici disposti a prendere le armi in caso di vittoria comunista alle elezioni in Italia costituivano una sorta di partito fascista clandestino, promosso nascostamente dagli USA, che, in forme diverse e con diverse complicità, ha operato in Italia per tutto il dopoguerra, collaborando al bisogno anche con la criminalità organizzata, per l’eliminazione di personaggi che fossero scomodi per gli USA , o per la criminalità organizzata, o per quel pezzo di potentato economico italiano che trovò nella P2, ma non solo, un luogo di sintesi degli interessi.

Questo blocco di interessi non accettò mai il progetto che i costituenti avevano definito nella Carta costituzionale e spinse continuamente per operare delle modifiche che, come si disse negli anni ’80, consentissero la “governabilità”.

La storia italiana conosce molteplici tentativi di modifica del Sistema, volti a irrobustire la posizione del governo, a spese degli altri organismi intermedi, che trovava la camera di compensazione nel Parlamento come definito dai costituenti,

Falliti i tentativi di cambiare da un punto di vista formale gli equilibri, si riuscì a modificarli con la trasformazione in senso maggioritario del sistema elettorale parlamentare.

In questo modo si riuscì a stabilizzare il governo a spese del Parlamento, ridotto a fare di volta in volta la cassa di risonanza o il capo espiatorio – ammortizzatore dell’Esecutivo.

In effetti il Parlamento definito dai costituenti era il fulcro del sistema, il luogo di realizzazione della sovranità popolare, modificando la sostanza di questo, sì riuscì a modificare il sistema senza toccare formalmente in profondità la Costituzione.

Per i fautori della “governabilità” il parzialmente problema rimase,  per la difficoltà di dare al Senato un sistema di elezione maggioritario utile a neutralizzarlo così come era avvenuto per la Camera dei deputati. Durante la diciassettesima legislatura il governo Renzi provo a risolvere il “problema” togliendo al Senato della Repubblica il potere di accordare  la fiducia al Governo

Ma la volontà del potere economico italiano di disporre di un ceto politico “servizievole”  e libero di muoversi utilmente, quella volontà non si è quietata. Esiste ancora un potere dello Stato  riconducibile appieno alla volontà della classe dominante: la Magistratura.

D’altro canto costituire la Magistratura come potere autonomo nasce dal pensiero illuminista per far sì che il potere non si concentri ed evitare che esso possa muoversi senza limiti.

I magistrati sono uomini e come tali singolarmente possono essere condizionati, o uccisi (purtroppo è storia) quando effettuano scelte eccessivamente sgradite al potere economico, al potere politico, al potere mafioso, Poteri che, si ricorda, non sempre sono in competizione tra loro.

La magistratura nel suo insieme comunque è un ostacolo, un limite alla assolutezza del potere.

Il partito di maggioranza relativa che sostiene questo governo è indubitabilmente l’erede  universale di quella parte del Paese che non ha mai accettato la Costituzione del ‘48, ed ha lottato per anni per osteggiarne gli obiettivi.

I legami con poteri paralleli italiani e stranieri, oggi descritti da un’ampia bibliografia, hanno consentito a costoro di continuare a sussistere in barba alla XII Disposizione transitoria della Costituzione e alla legge attuativa, la n.645 del 1952, nota come legge Scelba, che punisce chiunque promuova o organizzi un’associazione che persegue le finalità antidemocratiche proprie del disciolto partito fascista.

Oggi dalla posizione di governo con una serie mirata di revisioni costituzionali il tentativo di squinternare la Costituzione appare evidente: da una parte l’ulteriore blindatura dell’esecutivo con la riforma indicata come “Premierato”, dall’altra parte la sterilizzazione della Magistratura con una serie di riforme che ne minerebbero l’autonomia a cominciare dalla separazione delle carriere, contrabbandata come strumento indispensabile per separare la funzione della pubblica accusa da quella del giudice, senza considerare che l’attuale ordinamento prevede già tutta una serie di efficaci strumenti di separazione delle funzioni, per altro egregiamente evidenziati nell’attività di divulgazione di studiosi e magistrati autorevoli.

È appena il caso di notare che a fronte di un garantismo peloso nei confronti dei reati tipici dei “colletti bianchi”, gli esponenti di “Fratelli d’Italia” diventano ferocemente giustizialisti nei confronti dei reati messi in atto da delinquenti provenienti dagli Stati socialmente più svantaggiati.

L’obiettivo del “tirare diritto” della  Premier e del suo partito è chiaro: sottrarre chi governa (e i gruppi dirigenti che l’appoggiano) ai controlli democratici necessari per ogni stato liberale che si rispetti.

Il momento è particolarmente pericoloso, considerato che il paese più potente del blocco occidentale è oggi in mano a una persona insofferente ad ogni controllo, anche a quello elettorale, visto che Dopo aver perso la precedente tornata elettorale non ha esitato a promuovere al palazzo del Congresso

Intanto noi non ci rassegniamo ad accettare questa corrente autoritaria che pare espandersi nel mondo e ci prepariamo un’altra volta a difendere la Costituzione antifascista.

Afascismo

Ogniqualvolta nell’attuale dibattito politico italiano qualcuno lancia un allarme fascismo si trova qualche esponente della Destra politica (o giornalistica) pronto a negare l’allarme: il fascismo sarebbe finito alla fine della seconda guerra mondiale.

Tale affermazione è infondata. Meloni e FDI sono obiettivamente gli eredi del Fascismo per il tramite del #neofascismo degli anni ’60 e’70, riferimento per tanti dei loro elettori.

Però, a mio avviso, Meloni non attribuisce al Fascismo storico più importanza di tanto: non può condannarlo nettamente per non perdere  seguito, ma non ne trae diretta ispirazione. Certo non ideologica, quanto meno.

Come potrebbe, d’altronde, trarre ispirazione dal nulla? Qual era l’ideologia fascista? Il Fascismo collezionava al suo interno visioni, posizioni e comportamenti diversissimi e a tratti contraddittori. Solo il culto della personalità del Duce faceva da collante. Ricordate? “Mussolini  ha sempre ragione”. Per questo la figura di Mussolini è così importante per i fascisti: cosa c’era oltre quello?

Però in effetti un culto della personalità (in miniatura ma coltivato con impegno)  riguarda anche Meloni, che – obiettivamente – spicca senza particolare fatica nella compagine governativa che cerca di guidare.

In effetti c’era un tratto caratterizzante il fascismo: il netto rigetto di tutte le forme di  socialismo e di ogni forma di conflitto di classe mirante ad un cambiamento degli equilibri della società. Ma tale rifiuto non definisce il fascismo, se non per il fatto che l’azione fascista a difesa dei poteri economici consolidati era ostentatamente violenta.

L’anticomunismo/antisocialismo è patrimonio comune ed essenzialmente inscindibile della “società dei mercati”. La socialdemocrazia è stato un esperimento interessante (e sospettosamente monitorato) ma  – mi chiedo – sarebbe stato possibile senza l’esistenza dell’Unione sovietica? Certo non le è sopravvissuto.

Tornando a Meloni, il suo dichiarato “afascismo”, all’insegna di una pragmatica quanto interessata acquiescenza agli interessi americani e delle oligarchie internazionali, si sostanzia in un approccio formalmente perbenista, epperò non rassicura: in primis perché promuove la crescita nella società di istanze francamente violente (verbali ma non solo) avvelenando il dibattito politico e in secondo luogo perché continua a premere sui pilastri dell’architettura costituzionale del Paese, in primo luogo la tripartizione liberale dei poteri, promuovendo forme di democrazia autoritaria in cui il governo in quanto derivante dall’investitura elettorale sarebbe  al di sopra delle leggi – legibus solutus.

D’altronde  gli spunti di questa Impostazione si evincono già da diverse norme del decreto sicurezza, a cominciare da quell’art.31 che consente ai servizi di intelligence nazionali di compiere determinati reati, inclusa la direzione di associazioni terroristiche in operazioni sotto copertura, senza incorrere in sanzioni penali, come se in Italia non ci fosse mai stata una strategia della tensione.

Per non parlare dell’aggressione alla magistratura costituita dalla riforma Nordio.

D’altronde, al di là delle proteste e delle rassicurazioni del ministro della giustizia, la postura di questi nei confronti, della magistratura sia nazionale (sia internazionale – vedi caso Almasri) non lascia spazio e grandi dubbi, al di là dell’afflato garantista (limitato però ai colletti bianchi) di coloro che ricercano nella separazione delle carriere la piena realizzazione del processo accusatorio e con questo pensano di risolvere i problemi della giustizia italiana.

Tornando all’afascismo – una sorta di non fascismo non antifascista – questo presenta tutte le componenti dell’essenza più profonda del fascismo: protezione del potere economico dalle rivendicazioni di classe, fino alla obliterazione del conflitto democratico con un ostentato vittimismo che giustifichi l’impiego di norme contro le protesta,  estrema flessibilità delle pratiche e dei valori per adattarsi alla mutevolezza dei contesti e poi il collante, essenziale: il culto della personalità del leader, reso iconico dalla propaganda.

Il disegno della nostra Costituzione non è mai stato tanto in pericolo.

Il punto di equilibrio.

Quando nel ‘47 la Costituente elaborò la nostra Carta si era creato un equilibrio, forse irripetibile, di scienza e di coscienza, di motivazione a cercare la giusta misura tra la necessità di governare una società già allora complessa e la necessità di governarla senza che una parte obliterasse le ragioni delle altre parti. Il prodotto fu un buon prodotto. Non è che piacesse tutto a tutti, ma si era raggiunto un compromesso alto tra i liberali e comunisti, tra i cattolici e i laici, tra i monarchici e i repubblicani, tra coloro che non si sentivano antifascisti (Ma erano abbastanza opportunisti per non esprimere la loro posizione) e coloro che avevano fatto della lotta al Fascismo la propria ragione di vita.

Gli italiani avevano trovato un punto di equilibrio, che era si un punto da cui tirare verso la propria parte, ma era un punto comune: la Costituzione della Repubblica Italiana del ‘48 non era, come ogni prodotto umano esente da difetti, Il punto è che i difetti individuati da alcuni per altri erano pregi.

Nonostante la divisione dei poteri, per esempio, il Parlamento aveva un controllo diretto o indiretto su tutti gli altri poteri ed organi istituzionali. Inoltre la società civile attraverso i partiti e i sindacati pesava e pesava tanto!

Il potere del Parlamento si confrontava di continuo col potere del Governo, che per effetto della sua connessione col Parlamento attraverso i partiti era controllato da una parte e controllante dall’altra.

La distinzione tra Parlamento e Governo si fondava in buona misura sulla autonomia dei parlamentari, eletti col sistema proporzionale e le preferenze.

Il tentativo di divincolare il governo dal controllo parlamentare segue tutta la storia della Repubblica, da sempre in tanti hanno criticato il sistema di formazione delle decisioni pubbliche, che avveniva soprattutto in ambito partitico, ma che in Parlamento aveva un momento di ineliminabile incremento di trasparenza.

E la trasparenza nei processi decisionali pubblici non è interesse di tutti; è interesse della maggioranza dei cittadini meno influenti.

La trasformazione del sistema elettorale in sistema maggioritario, in più a turno unico, ha d’emblée stravolto gli equilibri: ha ingigantito Il potere delle segreterie di partito e snaturato il Parlamento rendendolo di volta in volta la cassa di risonanza o il mezzo di ammortizzazione politica delle scelte governative, a seconda della bisogna.

L’unico elemento che un po’ sfugge di fatto al nuovo equilibrio è il Senato, che per la base regionale dell’elezione rende impossibile una maggioranza blindata così come avviene alla camera. In Senato infatti è impossibile attribuire un premio di maggioranza unico per tutto il Paese. Per inciso, per una questione legata al differente numero di eletti per regione e all’orientamento di alcune  regioni più grandi, il Senato risulta molto più “ribelle”, quando vince il centro-sinistra.

Ciò ha costituito il motivo della riforma Renzi – Boschi, che sappiamo com’è andata a finire.

Possiamo dire che ogni volta che si è messo mano alla costituzione del 48, si è lavorato come dei muratori scadenti impegnati a “restaurare” una facciata monumentale: le modifiche si vedono e sono brutte e deturpanti,  anche da un punto di vista stilistico. Le persone come Concetto Marchesi oggi girano al largo, o sono tenute distanti, dalla politica istituzionale.

Quando le modifiche sono state più importanti come la riforma del Titolo V(approvata dal centro-sinistra)  il danno è stato più che proporzionale, ne vediamo i risultati a tutt’oggi e di questi risultati paventiamo gli sviluppi nei progetti di autonomia differenziata.

Intanto si continua a lavorare a “riforme” – che sarebbe utile chiamare correttamente col termine tecnico più sobrio di “revisioni” della Costituzione – che continuano a stirare quel povero punto di equilibrio del ’48 in direzione meno anti tirannica (o se si preferisce meno antifascista). Arrivando alla fine a snaturare il lavoro dei Costituenti, fino a rendere esigua quella tripartizione equilibrata dei poteri, che è uno dei tesori lasciatici dalla cultura illuminista e dalla Rivoluzione francese.

Andando alla noce della questione il potere esecutivo mal tollera i controlli: riesce a mascherarsi da democrazia grazie a una stampa amica, e a mostrarsi come emanazione della volontà popolare, dove il popolo è vittima di un drammatico “errore motivo” indotto dalla propaganda, ma avverte la pressione del controllo di legalità espresso dalla Magistratura, in quanto la Magistratura ha gli strumenti tecnici per restare immune dalla propaganda.

Intendiamoci, i magistrati non vivono su Marte, tra I magistrati abbiamo avuto dei martiri laici (e ne abbiamo avuti tanti – troppi) ma abbiamo avuto anche delle persone che con gli altri poteri ci hanno convissuto profittevolmente. Però il magistrato ha nella legge e nelle norme costituzionali una fonte di potere in buona parte indipendente e autonomo dalla politica e in quanto tale per certa politica è un problema. Problema che questo governo sta cercando di neutralizzare.

Alcuni fautori della separazione delle carriere i magistrato inquirente e di magistrato giudicante segnalano comprensibilmente le criticità di una vicinanza tra soggetti che espletano le due differenti funzioni. Tali criticità andrebbero sicuramente curate, come tanti ottimi studiosi e ottimi magistrati hanno segnalato in più occasioni. Mi pare però che i fautori “ingenui” (in senso etimologico) della separazione delle carriere non abbiano ponderato accuratamente gli esiti ultimi di questa separazione, resi prevedibili dall’operato quotidiano di questo governo: la sterilizzazione del controllo della Magistratura sulla politica e soprattutto sull’esecutivo.

E tale sterilizzazione avrebbe un effetto devastante su tutto il sistema, avvicinandoci drammaticamente all’esperienza ungherese o peggio ancora russa. Gli equilibri sono roba fragile e gli Stati Uniti con Trump lo stanno sperimentando.

 

Imbelli, ribelli e CGIL.

“Imbelle e ribelle”: questi due termini non hanno in comune soltanto la radice “bellum” dal latino, che significa guerra, ma condividono anche il rifiuto della volontà della élite che controlla la comunità di appartenenza. Gli imbelli rifiutano di combattere le guerre imposte dalla leadership, mentre i ribelli mettono in discussione la leadership stessa, rifiutandone le prescrizioni. Tale rifiuto fa degli imbelli e dei ribelli il bersaglio della disapprovazione dei gruppi dirigenti e, tramite il lavoro degli intellettuali conformi, che ne sostengono le posizioni, l’obiettivo della disapprovazione della comunità.

In questi giorni, alcuni intellettuali hanno definito “imbelli” i giovani che rigettano l’idea della guerra, che rifiutano di condividere la visione geopolitica per cui l’attuale leadership europea sta preparando il riarmo dei Paesi.

È facile notare come gli stessi gruppi dirigenti considerino altrettanto inaccettabile l’atteggiamento di giovani che, come quelli di “Ultima Generazione”, per attirare un’attenzione altrimenti negata dai media, bloccano la circolazione stradale o lanciano vernice contro edifici pubblici e monumenti.

Il tratto comune, che porta alla condanna pubblica delle figure degli imbelli e dei ribelli ,sarebbe quindi il rifiuto della direzione indicata da chi guida la società, la divergenza rispetto alle prescrizioni indotte cui si accompagna un conflitto variamente intenso verso i prescrittori.

La società occidentale si definisce libera in quanto dovrebbe consentire il dissenso pacifico, senza censure o limitazioni che vadano oltre il mantenimento dell’ordine pubblico. Tuttavia, la protezione dell’ordine pubblico è soggetta a valutazioni variabili: esso viene interpretato in modi diversi non in rapporto alla forma in cui la manifestazione si esplica, al turbamento dell’ordine fisico, materiale; ma a seconda che il dissenso metta in discussione aspetti considerati marginali o scelte politiche che l’élite giudica irrinunciabili, fino ad individuare i dissenzienti come nemici pubblici.

Ciò pone il problema di come possa superarsi il conformismo quando le scelte della leadership si discostano significativamente dal sentire di gruppi ampi o, addirittura dal sentire della maggioranza dei cittadini.

Tale atteggiamento, la consapevole adozione di scelte che si riconoscono minoritarie nella società, è definito dagli intellettuali conformi come assunzione di responsabilità. Rimane da capire come tale responsabilità possa essere vagliata dal controllo popolare. Come tale controllo possa essere esercitato tempestivamente.

La Costituzione materiale della Prima Repubblica consentiva una forma di ribellione ordinata, lo sciopero generale, ma questo strumento è stato reso sempre meno praticabile e praticato sia per l’affievolimento della conflittualità di grandi organizzazioni sindacali, un po’ per la riduzione del consenso, un po’ per l’assorbimento di abitudini negoziali iperconcertative, sia da una serie di interventi legislativi che hanno limitato il diritto di sciopero fino a renderlo inefficace.

Il dissenso potrebbe e dovrebbe manifestarsi nelle urne elettorali, ma anche quest’arma è stata spuntata dall’adozione di sistemi elettorali variamente maggioritari, che costringono gli elettori a scegliere tra opzioni percepite come simili, fino a indurre tanti a disertare le elezioni.

Un altro strumento istituzionale di espressione del dissenso è il referendum abrogativo, che però funziona solo se promosso da grandi organizzazioni nazionali, altrimenti  segue un percorso impervio con destino incerto, sia nell’ottenimento della consultazione sia nella validazione col raggiungimento del quorum.

La maggioranza e le forze che, pur dall’opposizione, condividono scelte economiche di fondo, cercano di disinnescare il potenziale di cambiamento del referendum, creando le condizioni per non raggiungere il quorum.

Un esempio evidente è il trattamento riservato ai referendum sul lavoro promossi dalla CGIL. La scelta di fissare la data del referendum all’8-9 giugno, in concomitanza con il secondo turno delle elezioni amministrative, tradizionalmente meno partecipato, e il silenzio dei media di massa sui temi referendari sono, con tutta evidenza, applicazioni di questa strategia.

A questo punto, tutti coloro che credono nei valori di libertà dovrebbero sentire il dovere di pubblicizzare il referendum, i temi che affronta, i problemi che vuole risolvere e le date in cui si terrà, giacché il tentativo di vincere appoggiandosi all’astensione è intrinsecamente antidemocratico.

(Noi di 99percento faremo di tutto per arrivare ad una vittoria dei sì, sia per la dignità di chi lavora, sia per il valore della democrazia. Ecco il link:

https://www.cgil.it/referendum

Che fare, adesso?

Quando le persone si muovono in gruppo tendono a a sentire stemperate le proprie responsabilità.
Chi ha detto che l’unione fa la forza ha dimenticato di aggiungere che buona parte di quella forza deriva dalla fiducia nel farla franca.
Chiunque voglia quindi evitare comportamenti indesiderati o indesiderabili dovrebbe aver cura di esaltare” la responsabilità individuale, ma per questo bisogna accettare di relazionarsi con gli individui consapevoli e spesso chi gestisce le comunità preferisce ridurre gli ostacoli alla propria azione e per cui predilige atteggiamenti gregari. In ambito politico, in cui si gestiscono collettività sociali, uno dei modi più efficaci per promuovere atteggiamenti gregari o per disincentivare assunzione individuale di responsabilità è la promozione di una scuola che prediliga l’addestramento e la trasmissione di tecniche e trascuri lo studio dei temi legati alle cause e al senso delle cose.
Da decenni si affida alla scuola la funzione di formare operatori e si disincentiva la formazione di persone autonome.

Fino a quando i meccanismi disposti per il funzionamento sociale, assicurano un accettabile soddisfacimento dei bisogni dei singoli, una società fatta di “persone semplici” rimane in stato di equilibrio. Pochi soggetti naturalmente autonomi vengono neutralizzati da meccanismi sociali inertizzanti.

Quando invece si attraversano fasi di crisi, in cui non si riesce a garantire il benessere diffuso, neanche in modo virtuale, manipolando le percezioni, allora la coesione sociale viene meno e a quel punto si aprono delle fasi dagli esiti imprevedibili: a quel punto si formano nuove aggregazioni interne alle classi dirigenti, o vecchi sodalizi propongono nuovi modi di perseguire il benessere dei singoli.

I personaggi che svolgono un ruolo da protagonista in situazioni di svolta sono detti demagoghi, parola ormai desueta, carica di senso negativo, che etimologicamente significa conduttori del Popolo.
In pratica il demagogo è la persona capace di sedurre il popolo e di portarlo in giro un po’ come il pifferaio di Hamelin induceva topi o bambini a seguirlo.

Quanto sta avvenendo alle democrazie può essere letto attraverso la lente della demagogia: le masse, deprivate di senso critico e sottoposte al grave stress derivante da un impoverimento generalizzato, vissuto come insopportabile, cercano una via d’uscita e accettano chi riesce a convincerle della bontà della propria proposta.

Dobbiamo interrogarci sulle cause della situazione presente e dobbiamo immaginare vie d’uscita alternative a quelle proposte dai demagoghi, più stabili e desiderabili negli esiti. Se fossimo stati più lungimiranti, avremmo potuto scegliere anche percorsi meno scabrosi, che evitassero il passaggio attraverso la notte della demagogia. Oggi dobbiamo mirare alla riduzione del danno in tutti i sensi, alla riduzione qualitativa del danno, alla riduzione quantitativa del danno e ancora dalla riduzione del tempo di esposizione al danno.

Non sono certo obiettivi facili, ma la definizione e la scelta di percorsi condivisi è un passaggio necessario e urgente. Sicuramente bisogna lavorare alla cura delle due criticità scatenanti: la diffusa sofferenza economica e la diffusa mancanza di strumenti di analisi della realtà.

Riteniamo che la politica debba lavorare in ogni modo possibile per curare queste due carenze e nell’attuale stato di cose, con le destre che controllano la sfera pubblica, deve iniziare a farlo senza poter contare sull’impiego delle istituzioni. La prima cura politica va indirizzata al corpo sociale, con le energie personali ed il tempo immediatamente disponibili a chi vuole veramente il cambiamento.

Disturberemo il manovratore.

La Costituzione repubblicana approvata dalla Costituente ed entrata in vigore nel 1948 è il risultato travagliato di una difficile sintesi , un equilibrio tra diverse culture italiane quella cattolica, quella liberale quella socialista e quella qualunquista, la quale fu un po’ il modo in cui quegli italiani, che avevano appoggiato il fascismo da posizioni defilate, erano rappresentati nella Costituente.

Un equilibrio fragile e destinato a subire attacchi continui non appena le condizioni si fossero modificate.

Certo è che se nei settantacinque anni di vigenza della Costituzione l’attenzione spesa per la sua riforma fosse stata impiegata per la sua applicazione, l’Italia oggi sarebbe un paese diverso.

Appare evidente che le modifiche della Costituzione apportate nel tempo l’abbiano resa meno coerente, meno leggibile e meno efficace rispetto agli obiettivi che si proponeva: una società in cui la politica si esprimesse non solo negli organismi istituzionali, ma anche nella partecipazione negli organismi intermedi. Una società in cui l’indifferenza, che tanti danni aveva creato nei decenni precedenti la seconda guerra mondiale fosse sostituita dalla partecipazione dei cittadini.

I tentativi di modifica della Costituzione – e soprattutto gli ultimi – sono stati tesi a ridurre il controllo parlamentare sul governo e a riduzione le occasioni di partecipazione popolare.

Tutto questo si inserisce nel flusso coerente che ha prodotto la legge sulla regolamentazione – affievolimento del diritto di sciopero e, soprattutto, la riforma del sistema elettorale in senso maggioritario.

La nostra Costituzione In effetti ha un bug: la divisione dei poteri prevista dall’ideologia illuministico liberale è resa in modo imperfetto: il Parlamento ha una funzione sovraordinata rispetto agli altri organi costituzionali, con fortissime attribuzioni di controllo sia sul potere esecutivo sia su quello giudiziario.

Questo perché il Parlamento, eletto direttamente sarebbe l’attuatore della sovranità che, recita l’art. 1, “appartiene al Popolo”. Ma questa impostazione funzionava fino alla riforma del sistema elettorale in senso maggioritario Eletto col sistema proporzionale il Parlamento era una rappresentazione fedele degli orientamenti popolari.

Il Parlamento eletto con il maggioritario, invece, istituisce un’immedesimazione tra volontà parlamentare e volontà del governo tanto forte da sostanziarsi in una liberazione del Governo dal controllo parlamentare, anzi nella trasformazione del Parlamento in una cassa di risonanza della volontà della maggioranza di governo, oltre che di un ammortizzatore capace di catalizzare su di sé la responsabilità delle scelte governative.

L’unica criticità in questo asservimento del parlamento al governo fino adesso è stata costituita dal meccanismo di elezione del Senato della Repubblica, che essendo effettuata per Costituzione su base regionale non garantisce una maggioranza uguale a quella della Camera, eletta su base nazionale. Infatti in tutte le legislature dal ’94 in poi le preoccupazioni dei governi si sono sempre focalizzate sul Senato in cui le maggioranze erano meno stabili e più risicate.

A questo punto coi partiti alleggeriti dalle ramificazioni territoriali e la rappresentanza parlamentare allontanata dai territori anche per la riduzione del numero dei parlamentari il governo è già arbitro mal controllato del gioco politico.

Per metterlo al riparo da scossoni e assolutamente fuori controllo serve soltanto depotenziare la Presidenza della Repubblica e sterilizzare la possibilità che il Parlamento tolga la fiducia.
Se entrasse in vigore la proposta di revisione costituzionale del governo Meloni, il Premier verrebbe eletto insieme al Parlamento (votato con la stessa scheda – come già i sindaci) ed i partiti che gli sono collegati otterrebbero il 55% dei seggi, anche se alle urne non avessero la maggioranza assoluta.

A questo punto, superando la sensazione di deja vu nel Ventennio, viene spontanea una domanda: con un architettura siffatta, quanto conta la volontà di un cittadino?

Basta guardare a quello che hanno prodotto i governi “stabili”: peggioramento delle pensioni, partecipazioni a guerre non volute dalla maggioranza dei cittadini, mancata lotta all’inflazione, mancata cura del territorio e contemporanei tentativi di mettere in cantiere opere faraoniche come il Ponte sullo Stretto di Messina. E tutto questo senza il rischio di essere ‘mandati a casa”.

Con la riforma Meloni si eliminerebbe anche la pallida possibilità che di fronte ad un disastro conclamato i parlamentari sfiducino il governo, inducendo il Presidente della Repubblica a nominare un altro Presidente del Consiglio.

È quello che vogliono gli italiani?

Se questa maggioranza approvasse questa revisione della Costituzione, lo vedremo al referendum.
Noi voteremo NO.

la nostra proposta per il XXI secolo.

La Democrazia, il governo del Popolo, funziona bene tra uguali. Una società è danneggiata dalla presenza di persone troppo povere come dalla presenza di persone troppo ricche, perché nell’esprimere la propria volontà, i propri voti, chi è troppo povero è ricattabile e chi è troppo ricco ha la concreta possibilità di cambiare le regole (durante la partita) quando e come vuole. 

L’obiettivo centrale è curare la società dagli eccessi, dalla miseria e dalla opulenza, anche perchè storicamente l‘equilibrio è il presupposto delle società più sviluppate, più armoniche, più felici.

Ma l’uguaglianza non può essere né totale né imposta dall’alto: le persone non sono tutte uguali, anzi sono tutte diverse l’una dall’altra: differenze di tutti i generi, gusti, desideri, sensibilità. C’è chi vuole disporre di più cose – e per questo è disposto a un maggiore impegno – e chi preferisce più tempo libero. Ci sta. C’è anche chi parla di merito, ma questo termine ha senso solo a parità di condizioni e nell’ambito di processi semplici, senza condizionamenti esterni, condizioni che nelle complesse realtà sociali non si verificano mai.

È giusto che chi vuole impegnarsi di più sia libero di farlo e di raccogliere il frutto del proprio lavoro. Però la libertà di fare di più, se non è regolata, spinge naturalmente verso l’inasprimento delle disuguaglianze: chi ha ottenuto un vantaggio tende a stabilizzare i risultati ottenuti, magari per trasferire questi risultati ad altri, i figli per esempio, che così possono   avvantaggiarsi anche senza sforzi propri. 

Qui deve intervenire la spinta riequilibratrice dello Stato, per evitare che la ricchezza diventi un vantaggio incolmabile. Per questo la Costituzione dice che “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. 

Tutti hanno diritto a scuole pubbliche e ad università gratuite e funzionanti, perché tutti hanno il diritto di concorrere alla pari ai ruoli sociali di maggiore responsabilità e prestigio.

Tutti hanno diritto al lavoro – pagato tanto da poterci vivere dignitosamente – per avere un ruolo attivo al funzionamento della società.

Tutti hanno diritto a cure mediche gratuite tempestive e di buona qualità, per essere liberi dal timore che una malattia non possa essere curata o li porti alla rovina propria e delle proprie famiglie. 

Sappiamo che il progetto della Costituzione non si è mai realizzato appieno per la resistenza di settori politici e sociali conservatori, ma tale obiettivo rimane il nostro per questo XXI secolo, anzi oggi è più urgente ed è anche più raggiungibile per effetto delle enormi innovazioni tecniche avvenute. 

Alcune riforme sono diventate urgenti, per evitare che l’acuirsi delle sofferenze sociali porti ad una situazione irriformabile. Il fatto che non ci siano alternative risulta  naturalmente inaccettabile per chi nell’attuale stato di cose sopravvive a malapena.

Ma per realizzare qualsiasi riforma bisogna  ricostruire la macchina della Repubblica: Stato Regione ed Enti locali. E’ attraverso queste strutture che  si possono mettere in atto i cambiamenti necessari. Serve un settore pubblico che funzioni veramente, dalla Sanità alla Scuola, all’Assistenza sociale, alla manutenzione del Territorio, alle funzioni di controllo. Oggi non è così. Le amministrazioni pubbliche da più di  30 anni sono state messe nelle condizioni di non funzionare, disattivate: il blocco del turn over ha ridotto e fatto invecchiare il personale e questo stesso personale spesso non ha fruito di aggiornamenti e formazione. La peggiore politica clientelare ha fatto di tutto per infiltrarlo e condizionarne impropriamente l’attività.

Le pubbliche amministrazioni devono tornare nelle condizioni di funzionare, essere messe in grado di utilizzare al meglio le tecnologie dell’informazione e per questo servono funzionari pubblici giovani e preparati, selezionati con concorsi pubblici e destinati a rimanere impiegati stabilmente, al fine di disporre di organizzazioni efficaci al giusto costo. 

Certo la riattivazione della macchina pubblica ha un costo non indifferente. 

Che fare? Bisogna invertire la rotta: ad oggi Stato ed enti pubblici non riscuotono il necessario per funzionare e in più spendono troppo per acquistare beni e servizi, spesso di cattiva qualità. Il dissesto della macchina pubblica non era inevitabile e non è stato casuale. Neutralizzare gli uffici pubblici é stato funzionale alla riduzione di tutti i controlli: sulla riscossione dei tributi, sul rispetto degli spazi e dei beni comuni, sull’ambiente.

Per finire, la neutralizzazione degli Uffici pubblici è servita per offrire all’economia privata proficue occasioni di guadagno, sostituendosi al Pubblico: dalla Sanità alla Scuola, dalle Università alla distribuzione dell’acqua alla mediazione tra domanda e offerta di lavoro, financo alla vigilanza del territorio. Inoltre la politica usa gli uffici pubblici per coltivare il consenso, ponendosi come rimedio “ad personam” per superare le lungaggini burocratiche create dalla stessa politica con norme ambigue, quando non contraddittorie.

La riappropriazione di spazi di attività da parte del settore pubblico non significa negazione dell’iniziativa privata. Questa, se operata nel rispetto dei diritti dei lavoratori, dei consumatori e dell’ambiente è un elemento prezioso di pluralismo e di autonomia individuale. e come tale può svolgere un’importante funzione nell’innovazione dei prodotti e dei processi. Essa non deve essere caricata di costi di assistenza, che devono essere pubblici perché universali e non deve essere assistita da fondi pubblici sotto forma di contributi a fondo perduto, di agevolazioni incondizionate e di altri supporti che gravanti sulla spesa pubblica. 

Inoltre l’iniziativa privata sarebbe avvantaggiata da una macchina pubblica efficace, da controlli veloci, capaci di bloccare le forme di concorrenza sleale e da una veloce e precisa amministrazione delle controversie.

Seguiteci. vi proporremo le nostre priorità.

Just “pro reo”?



Come chiamare il fenomeno per cui la vittima è colpevolizzata per l’evento dannoso subìto?
Il neologismo vittimicidio è gia stato creato per descrivere l’atteggiamento diffuso nella cultura patriarcale per le fattispecie che colpiscono le donne, intimidite, zittitte, maltrattate, violate, perché sarebbero state petulanti, arroganti, inquiete, provocanti.

Ma a ben vedere nel nostro Paese è in voga (e sedimentata) una cultura in cui l’Autorità è flebile e inefficace, quando non addirittura complice: il colpevole viene di fatto lasciato impunito, quando non ammirato per la sua audacia.

Come spiegare altrimenti il Fascismo, il Berlusconismo o il Renzismo?

In Italia siamo lontani dalla bigotta ipocrisia americana: Mussolini poté addossarsi in Parlamento la responsabilità politica dell’assassinio di Matteotti, il Parlamento votò che Ruby era la nipote di Mubarak e Renzi è ancora in Parlamento nonostante abbia silurato Letta dopo averlo rassicurato sul suo appoggio – “Enrico stai sereno” – ed essere stato bocciato al referendum costituzionale del 2016 “se perdo mi ritiro dalla politica”.

In Italia si depenalizza il falso in bilancio, si condonano abusi e cartelle esattoriali, si garantiscono (i colletti bianchi), ci si lamenta per le indagini della magistratura quando riguardano una persona di ceto borghese (senza integrare il personale giudiziario).

In Italia si promuovono o si lasciano al lavoro poliziotti e carabinieri implicati in indagini su fatti gravissimi (es. G8 di Genova, caso Cucchi, etc). In italia i responsabili della morte di giovani lavoratrici subiscono condanne irrisorie.

Gramsci aveva correttamente indicato nell’indifferenza il male dell’Italia, un paese pieno di Don Abbondio laici e no. Gramsci è morto senza sentire la sentenza per cui c’è stata si una trattativa con la mafia ma “a fin di bene”.

In un Paese siffatto i casi dei Matteotti, dei Gramsci, dei Libero Grassi, dei Falcone, dei Borsellino sembrano servire più come esempi da evitare che come modelli da seguire.

In questo scenario esempi come quello di Ilaria Cucchi sembrano alieni: “si è stata brava, ma io non avrei insistito tanto” e comunque queste persone vengono sfruttate,  diluite, dissipate in realtà tutte italiane, in normali come Sinistra Italiana (appunto) insieme ai Sumahoro.

Quindi abbiamo – è giusto dirlo – persone che denunciano: denunciano auto in doppia fila che gli impediscono di uscire dal parcheggio, o ex compagni stalker, denunciano abusi di datori di lavoro disonesti, o intimidazioni di funzionari concussori, denunciano minacce di estortori mafiosi e ndranghetisti,
Ma poi queste persone non ottengono giustizia e neanche sono protette dalle ritorsioni.

Hanno la colpa imperdonabile di essere vittime e di chiedere giustizia e protezione allo Stato.

Perché è lo Stato il grande malato italiano: è malato di debolezza fino all’esanimità. Esanime appunto, senza spirito né volontà. In Italia la trama delle relazioni superfamiliari si esplica in organizzazioni  che, quale che ne sia la natura teorica, tendono a configurarsi come clan, in senso antropologico: qualcosa di prepolitico in cui le relazioni personali e familiari superano in forza e funzione le relazioni formali dichiarate. E questo avviene nelle associazioni e nei sindacati, nei partiti e nelle comunità parrocchiali, nelle Massonerie e nell’Opus dei.

Prima i miei associati, però (per cerchi concentrici) dopo i miei amici, i miei parenti, la mia famiglia, i miei figli.

Questi non sono problemi che si risolvono facilmente o brevemente, ma, se individuati e riconosciuti, possono essere curati. E va fatto. Per rendere il nostro paese abitabile, anche per le vittime. Tutte.